Scrivo
a te
che in futuro
non ci sarai
scrivo perché
non posso parlarti
la voce
mi cade
il pensiero
non tace
scrivo perché resti
qualcosa di me
che ti pensava
che ti cercava
Scrivo
a te
che in futuro
non ci sarai
scrivo perché
non posso parlarti
la voce
mi cade
il pensiero
non tace
scrivo perché resti
qualcosa di me
che ti pensava
che ti cercava
Ti penso da questa terra di ombre spente,
bambina per sempre, che danzi nei sogni
con piedi scalzi sopra le stelle,
più lieve del pianto, più viva del tempo.
Sei lontana, come la luna al grano,
come il vento al tamburo della mia pelle.
Non posso toccarti, ma ogni notte
mi sfiori il cuore col tuo sorriso.
Tu sei innocenza,
che non conosce le spine del mondo,
che guarda la pioggia come un regalo,
e si stupisce al volo di un passero
come fosse un miracolo antico.
Hai meraviglia nei palmi,
gioia che esplode come una bolla,
fantasia che fa dei sassi castelli
e del silenzio canzoni leggere.
Io, esiliato dai tuoi occhi chiari,
mi struggo nella distanza che ci separa,
tra muri d’anni e paure adulte.
Ma tu credi ancora:
hai fiducia negli altri,
come un fiore che si apre a chi passa,
curiosità che chiede al vento
perché soffia e dove va.
Tu ascolti col cuore
in empatia che nasce istintiva,
come se ogni dolore fosse il tuo,
come se l’amore fosse pane
e tu lo offrissi con le mani aperte.
Parli il gioco come fosse lingua,
e la tua sincerità disarmante
fa tremare ogni bugia sottile.
Sai perdonare come l’acqua
che dimentica il fango,
non giudichi, non pesi, non chiedi.
Ami,
senza misura né ritorno.
Hai una luce che non si spegne,
un’energia che danza tra le ore,
tenerezza che sa come toccare
senza ferire.
Vedi bellezza dove altri non guardano,
credi ancora nella magia,
come se il cielo fosse un sipario
e dietro ci fosse un mondo più vero.
Hai bisogno d’abbracci veri,
di restare vicina a chi ami,
ti doni con tutta te stessa,
poi torni, spontanea, come la sera.
Cerchi protezione
e trovi rifugio nei cuori sinceri.
E ridi!
Ridi con tutto il tuo corpo,
come se il riso fosse respiro.
Ma io non posso toccarti.
Sono troppo lontano.
E allora ti scrivo,
ti chiamo nei versi,
chiedo perdono per essere cresciuto.
Tu,
bambina per sempre,
custode del mondo che ho perduto,
resta.
Resta dove sei.
Là dove il cuore non ha ancora paura.
Pur se la sorte a me fu sì cortese,
che ogn’opra mia colmi di gloria e lode,
e l’alme ardenti, in van bramose spoglie,
per me si strazian con lascivo ardore;
pur se le mete agognate, una a una,
caddero al piè come dorati fiori,
non trova tregua il cor, né pace il senso,
ché in me dimora un’inquieta tempesta.
Un vuoto oscuro, un gelido abisso,
divora i giorni miei, l’anima stanca;
nessun piacer lo placa, né dolcezza
di carne o fama spegne il suo furore.
Così talor le antiche ombre rivedo,
gli eroi caduti, e i loro vani onori,
ché anch’essi, sotto la corona e il ferro,
sentian del viver l’invisibil male.
E tu, che ascolti il mio cantar dolente,
non invidiar chi sembra aver vinto il mondo:
ché v’è una pena che nessun trionfo
cura, né amor, né lodi, né bellezza.
Ogna mal di gabbu chi v’aggiu
chi pari unu crastu supra la frunti,
la menti mia gira e mi scagghiu,
lu cori mi batte cun tutti li punti.
Troppu cosi, troppu da fà,
ma nonn’aggiu gana, e chissu è già.
Sò istraccu, trabagliaddu assà,
comu unu chi mai s’ha firmà.
La casa, lu trabagliu, li guai,
mi stennini comu panni ai stai.
Ma lu chi vogghju, sinceramenti,
è sentàmmi pianu tra li parenti.
Cu un biccheri bonu di binu,
e l’abbrazzu caldu d’un amigghinu,
scurdàmmi di tuttu, senza pena,
finza a quandu si cala la scena.
Sassari, 1 maggio 2025
Ciao Già,
ti scrivo questa lettera dopo più di vent’anni dall’ultima volta. Quando ancora aveva senso farlo, e avevo un indirizzo certo a cui mandarla. Adesso queste parole sono un po’ come un messaggio in bottiglia, lanciato nel mare: forse verrà ritrovato, forse no – magari in un futuro lontano. Ma sento il bisogno di parlarti.
È un’esigenza che mi porto dentro da così tanto tempo che non so più nemmeno da quanto. Saranno almeno dieci anni, forse di più. Conosco ancora il tuo numero di telefono a memoria, e potrei chiamarti. Magari mi dedicheresti anche un’ora intera del tuo tempo. Potrei anche scriverti su Facebook. Ma so già che non servirebbe. Ci ho provato, più volte, negli anni.
Forse, allora, sto scrivendo questa lettera più per me che per te. Ma spero davvero che un giorno ti arrivi. Non ho mai smesso di volerti bene, anche dopo tutto questo tempo, e credo che il tempo non possa cambiare ciò che è autentico. Perché quello che sento non dipende da ciò che ricevo da te, né da quello che posso darti io.
In fondo, non è proprio questo il senso dell’amicizia? Continuare ad apprezzare qualcuno nonostante le distanze, le differenze, e anche in assenza di “scambi”?
Sai bene a chi sto pensando: nel De Amicitia, Cicerone – sì, proprio lui, il nostro “simpatico amico” su cui tanto scherzavamo al liceo (e come non ridere pensando alle sue abitudini conviviali!) – parla dell’amicizia come di uno dei beni più preziosi della vita umana, fondata sulla virtù e sulla comunanza di valori. È vero, magari su alcuni valori oggi siamo lontani, ma sono sicuro che ce ne sono molti altri che ancora ci uniscono.
Secondo lui, la vera amicizia nasce tra persone rette, legate dal rispetto e dalla lealtà. Mi piace pensare che tutto questo tra noi ci sia stato – o almeno, da parte mia c’è sempre stato un profondo rispetto per quello che mi hai insegnato, e una grande stima. Molto più di quanto io sia mai riuscito a farti capire.
Cicerone dice anche che l’amicizia non serve per ottenere vantaggi, ma ha un valore in sé: un legame disinteressato, che si nutre di fiducia, sincerità e affetto. E anche se l’amicizia vera richiede presenza, io sento che quello che provo resiste al tempo e alla distanza. Perché si fonda su una comunanza morale che il tempo non può scalfire.
Ok, lo prometto: basta con Cicerone. Ma ci tenevo davvero a dirtelo, e spero che, mentre leggi, ti sia scappata almeno una risata – come sta succedendo a me scrivendo tutto questo. Cicero luxuriosus et pravitate infectus!
Ecco, con questa digressione ciceroniana ho perso un po’ il filo di quello che volevo dire, quindi penso che continuerò un altro giorno. Anzi, farò proprio così: ti scriverò “a puntate” e vediamo cosa ne viene fuori.
Ciao Massi,
oggi sono passato davanti a quei due gradini di Viale Italia. Alti, larghi, in marmo bianco. Te li ricordi, no?
Venticinque anni fa li evitavo come la peste. E tu lo sapevi bene: ogni volta che uscivamo, ti portavo a zigzagare per le viuzze del centro, pur di non incrociarli. La rabbia, la frustrazione, il vuoto – erano ancora troppo vivi. Per almeno dieci anni mi hanno fatto male. Poi ho smesso di evitarli. Cominciavo a passarci davanti, piano. A volte mi fermavo, li guardavo. A volte mi sedevo lì sopra. Qualche volta mi venivano gli occhi lucidi, altre volte mi scappava un versaccio, un grido soffocato. Prendevo in mano il vecchio Nokia che ancora tenevo in tasca e rileggevo gli ultimi messaggi. Come se potessero dirmi qualcosa che mi era sfuggito.
Poi, il silenzio. Per anni non ci ho più pensato. Ho buttato via tutto: libri, fotografie, foglietti di scuola. Ho cambiato città. Sono stato lontano.
Alcune cose riescono davvero a dormire a lungo. Sembrano svanite. Ma non lo sono.
E quei gradini, Massi… erano il nostro punto fisso. Ci stavo seduto quando Giuggia usciva in ritardo di dieci minuti. Guardavo il traffico di Viale Italia: le auto bloccate, gli autobus impazziti, gli autisti che urlavano e suonavano. Io me la ridevo. A 15 anni col motorino ti sembrava di avere il mondo in tasca. La patente era un miraggio, l’adrenalina una religione. Non potevo immaginare che un giorno sarei diventato anch’io uno di quegli automobilisti incazzati. Succede. Succede quando non sei in pace con te stesso.
Pensavo a mio padrino, lui sì che sapeva stare calmo nel traffico. Se ne fregava. Sembrava si rifugiasse in un altro mondo. Forse erano le cassette dei Nomadi che metteva sempre in macchina, sempre le stesse, con la voce di Augusto che gli faceva da scudo contro tutto.
Poi, d’improvviso, scattava il cancelletto verde. Quello con la ruggine sugli angoli. E io venivo strappato via da tutto: presente, passato, futuro.
Il suono della serratura elettrica era come un richiamo.
Un istante dopo, quella nuvola di profumo mi avvolgeva. Dolce, riconoscibile, irripetibile.
Come si fa a descrivere una cosa del genere, Massi? Come cazzo si fa? Non si può. Tu lo sai. È come quando uscivi con Maria Vittoria e tornavi rimbambito, addomesticato. Era così. Era quella roba lì.
E adesso, questi maledetti gradini. Ancora qui, dopo tutto.
Non si può, Massi. Non passa. Non passerà mai.
Lo so che non è colpa mia. Che la mente fa brutti scherzi. Che certe cose non te le puoi immaginare.
Eppure… se avessi colto un segnale, anche piccolo. Se avessi capito qualcosa, parlato col signor Nicola, fatto una domanda in più…
Ma non c’è niente. Non c’è rimedio. Solo un pensiero che torna, sempre uguale: sono arrivato tardi. E per pochi minuti, l’ho persa per sempre.
A quindici anni, Massi, non dovrebbe succedere.
A quell’età si dovrebbe solo giocare. Studiare un po’. Ridere forte. Piangere per niente. Farsi degli amici. Farsi amare dai propri genitori. Avere il diritto di sentirsi importanti, anche quando si è fragili. Forse è questo il punto, Massi. Forse non si è sentita amata abbastanza.
Tu pensi che il babbo… non lo so.
Tu pensi che il babbo l’amasse davvero?
Perché io, da fuori, non lo vedevo. Non lo capivo. E forse lei non lo sentiva. Forse nessuno gliel’ha fatto sentire, davvero.
E ora mi restano questi gradini. E quel profumo. E questa fottuta domanda che non smette mai di fare male.
Sutta a li stiddi, lu fogu si desta,
comente cantu chi vene da l’arma,
e in mezzu a l’umbra, tra pizzi e conzédda,
s’assenta la zente com’una litàrma.
Su batti di ghitarra, s’apri la sera,
cun cori chi bolit, cun occhi brillendi,
e ogni parola chi scappa sincera
si mesca a lu ventu e va tra li rendi.
L’odori di porcu, di vinu, di mari,
s’unìscini a noti di melinzanetta,
e in la cassola balla lu sucu chi cari,
mentri la fammi l’anima s’arretta.
La festha manna est comu prighera,
unu ritusu di focu e d’armonia,
chi porta la zente in stessa bandera
e cun l’amori si fa poesia.
Cala lu soli, e s’asculta lu cantu
chi lentu si spanni tra l’olmi e li muri;
s’est abbattutu lu pani santu,
ma lu cori bruschiat resta sicuru.
le rose erano di vari colori
alcune rosa, ma anche bianche
e di tutte le sfumatore nel mezzo
solo aldila’ del muro di edera
un cespuglio di rose rosse
ma non potevo vederlo
solo da molto lontano riuscivo
scorgevo la parte piu’ alta
dove alcuni piccoli boccioli
ancora stavano aprendosi
non c’è nessuno
cammino per le strade
affamato
con la bocca secca
e gli occhi asciutti
.
nuvole grigie in cielo
le porte delle case
diroccate – sfondate
finestre rotte, spaccate
balconi crollati
.
strade di città
un tempo abitate
da voci e volti
piazze di festa
concerti, banchetti
.
in lontananza, il mare
gabbiani veleggiano
puntini sull’orizzonte
un veliero scorge terra
arriva da terre lontane
.
c’è ancora vita
Aspettavo la tua visita,
nella quiete che sa di addio.
Ora bussi! Cento volte,
e cento ancora.
Ma io ho preso il sentiero,
tra le valli profonde,
i monti in silenzio,
e i boschi che non chiedono nulla.
Cercavo un luogo remoto
per costruire la mia nuova casa.
Lontano da te,
lontano da me.