Nel mobile della sala c’era una foto che ritraeva me e Andrea esultanti negli spogliatoi del campo sportivo dell’Olympia dopo una partita vinta. Avrà avuto circa sedici anni in quella foto e indossava dei jeans sdruciti e una maglietta nera, come i suoi lunghi capelli. Aveva quel sorriso spesso irascibile e il mare in tempesta negli occhi.
Come calciatore era davvero forte, quel giorno in particolare aveva bucato il portiere avversario per tre o quattro volte ed era oggettivamente felice. Una volta vennero al campo sportivo dei tizi di Roma che volevano portarlo a giocare là da loro, avevano già il contratto pronto: un milione al mese per i primi due anni, più studi pagati, ma il padre, lurido ubriacone, diceva che il suo mestiere non era quello di tirare calci alla palla, che suo figlio ci aveva perso anche troppo tempo a correre dietro a quella sfera di cuoio e che avrebbe fatto meglio ad andare in campagna ad aiutare il fratello più grande.
Andrea non odiava suo padre. Sebbene lo maltrattasse e lo umiliasse davanti a tutti, non provava odio per quel vedovo sporco e alcolizzato. Avrebbe voluto ucciderlo, certo, più di una volta. Come lui aveva fatto morire la moglie.
Ma non lo odiava.
Me la ricorderò per sempre zia Giovanna Palmas, buonanima, bassa e mingherlina com’era, che profumava sempre di sapone di Marsiglia e che mi faceva il caffè più buono che al bar.
Era sempre gentile con tutti, con quel suo sorriso tranquillo e roseo e quegli occhi chiari che facevano risaltare ancor di più la sua pelle bianca e lentigginosa.
Riuscivi a capire che Andrea era suo figlio guardandolo negli occhi, solo che quelli di zia Giovanna erano molto più tristi, quasi malati.
Era colpa del marito, Barore Piga, che aveva il vizio del gioco e che una volta aveva perso la casa in una bisca al vecchio circolo dei cacciatori. Da quel giorno gli occhi azzurri di zia Giovanna si fecero sempre più tristi per la vergogna, e il suo cuore cominciò a battere un ritmo sempre più irregolare, sino a quando non resse più, sino a quando non scoppiò. E pensare che era riuscita a far promettere al marito che non avrebbe più giocato a carte, mai più, neanche all’oratorio davanti a Don Antonio, dove non si può scommettere e si gioca solo per passare il tempo, solo per non stare a bestemmiare dentro al bar contro il governo e la pioggia e chissà cos’altro.
E invece Barore una notte tornò a casa biascicando bestemmie a squarciagola.
Chissà per quante ore era rimasta sveglia ad attendere il marito zia Giovanna.
Chissà quanto aveva lavorato a maglia quella notte, e quanti balli sincopati aveva fatto il suo cuore.
Quando sentì che urlava maledizioni per la strada, corse fuori e lo portò in casa, vergognandosi per tutto quel baccano che stava facendo.
Il suo cuore batteva a mille all’ora mentre dalla bocca di Barore strisciavano fuori come viscidi lombrichi parole che zia Giovanna temeva di dover sentire, ma a cui non voleva pensare, confidando nella promessa del marito.
Parole che significavano soldi persi giocando a mariglia a casa di quell’usuraio di Michele Piana.
Molti soldi.
Il cuore ballerino di zia Giovanna inciampò e cadde per non rialzarsi più.
Andrea non volle andare al funerale di sua madre e non rimase neanche in casa a sentirsi dire s’iscureddu dalle zie, che non aveva bisogno della loro pietà.
Andammo al campetto dietro alla chiesa e mai vidi il pallone schiantarsi così violentemente contro il muro dell’oratorio.
Mi chiese se poteva dormire a casa mia quella notte, che non voleva…
Dissi di sì, interrompendolo, che intanto già avevo capito che non voleva rimanere a casa sua a vedere il padre davanti alla bottiglia di filuferru, mentre piangeva la povera moglie.
Alcuni mesi dopo uno zio del continente gli trovò un lavoro in fabbrica su a Cuneo e lui non ci pensò due volte e appena diciassettenne se ne andò da Peadas.
Dodici anni dopo, per Natale, mi mandò una lettera dove diceva che là si trovava bene, che stava lavorando in una acciaieria e che si era preso il diploma da privatista e grazie a questo aveva ottenuto un posto di riguardo e non doveva fare altro che stare otto ore al giorno nel suo ufficio davanti al computer, che lo stipendio era buono e che aveva voglia di vedermi, magari per dare due calci al pallone come ai vecchi tempi.
Nella lettera diceva anche che si doveva sposare con una donna stupenda, e che tra poche settimane sarebbe nata Giovanna, sua figlia, e che sarebbe stato contento se io l’avessi battezzata.
Adesso che sono in questa chiesa di Cuneo con l’odore dell’incenso che mi soffoca i polmoni, penso alle corse sull’erba verde di Andrea col numero sette sulle spalle, al caffè buono che mi faceva zia Giovanna e al suo profumo di sapone di Marsiglia.
Penso a come la vita possa tornare a sorriderti mentre guardo Andrea e Marcella che si giurano fedeltà eterna, e mentre tengo tra le braccia questa piccola creatura, che mi osserva incuriosita con i suoi grandi occhini azzurri.
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