Dal quaderno di Jean: Autunno – III

A volte sogno di fuggire da questo schifo di paese, da queste vie e da queste case che conosco a memoria. Sogno di scappare lontano da queste facce, sempre le stesse, rinchiuse dentro i bar a inghiottire problemi e cazzi loro di chissà quale tipo.

Certe notti, prima di addormentarmi, mi chiedo come è stata la mia giornata; così mi affaccio alla finestra e con la mente viaggio verso posti lontani, esotici, sperduti.

Qualche volta mi sale in testa di andare da Dindia, il mio principale, chiedere la liquidazione e partire per il Sudamerica. Belize, Costa Rica, Guatemala, non importa: lontano da qui.

Lontano dalla desolazione di Peadas.

Abbandonerei anche quel sirbone di mia moglie, che non fa altro che ingrassare davanti alla televisione a guardare le telenovelas ed è già tanto che riesce a farmi trovare qualcosa di pronto quando rientro da lavoro. Non so neanche più da quanti mesi è che non facciamo l’amore, e sinceramente non mi interessa. Non la amo. Non l’ho mai amata. Forse quando eravamo ragazzini…

Andavamo alle scuole superiori e io ero al quarto anno del classico, lei alle magistrali.

Ogni sera avevamo appuntamento a su zimidoriu ezzu, al vecchio cimitero dietro la chiesa, e facevamo l’amore sotto una coperta che lei portava di nascosto da casa.

Ma a diciassette anni rimase incinta. Il padre lo venne a sapere e dopo avermi dato uno schiaffo mi disse: como ti la cojuasa! Adesso te la sposi!

Poco tempo dopo mi trovò questo cazzo di lavoro da muratore nel cantiere di un suo cugino alla lontana.

E me lo rinfaccia sempre, ogni volta che pranziamo a casa sua, che io devo ringraziare lui se adesso lavoro e se posso vivere decentemente.

Perché non va a fare in culo, lui e quella sanguisuga della figlia, che sta in casa tutto il giorno a combinare un cazzo e a fine mese, in vista dello stipendio finge di interessarsi di me, così può prendersi i vestiti nuovi. Ancora non riesco a capire come può una colora, una biscia come mia moglie, partorire un angelo.

Se lavoro come un mulo dalla mattina alla sera, se sopporto questa donna che detesto, con cui non ho niente da condividere, e se soprattutto ingoio tutta la merda che quotidianamente mi lancia addosso suo padre, se rinuncio al mio desiderio di mollare tutto e di andarmene da Peadas, è per mio figlio: l’unica goccia felice della mia vita, che ormai naviga in un mare di rimpianti.

Adesso ha sedici anni. Davide si chiama.

Quando avevo la sua età sognavo di essere un cazzo di poeta girovago, tipo Rimbaud, e vivere la mia vita senza senso, perché non c’è un senso da trovare.

Ricercare un senso nella vita è come sperare di farsi amare da una puttana.

Chi siamo? Da dove veniamo? Sono domande inutili.

E’ quello che ci rende felici che bisogna capire. E per farlo non c’è bisogno dei preti che ci dicono di pregare il buon Dio, tantomeno di qualche filosofo del cazzo.

Io non lo so cosa mi porterà ancora questa vita, che sorprese mi riserverà per il futuro. So solo che i miei sogni ormai vivono in un posto molto lontano da qui e qualche notte vengono a farmi visita, e mi raccontano avventure stupende che mi provocano sensazioni meravigliose.

Un solo sogno è rimasto con me: mio figlio. Lo vedo crescere ogni giorno di più, cosciente purtroppo del fatto che presto anche lui se ne andrà via da me, che anche lui prima o poi dovrà crescere…

Ma tutto sommato va bene così.

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