Dal quaderno di Jean: Autunno – II

Adesso che non ho più l’atletismo e i riflessi di un tempo, di quando mi spostavo agile come una zanzara da una parte all’altra del ring, schivando destri e sinistri per poi dare il colpo del K.O. e per alzare le braccia al cielo, ubriacandomi di gioia, con le grida assordanti di quei quattro diavoli dei miei fedali, che ripetevano ad alta voce Frank! Frank! Frank! dal fondo della palestra, e con il volto soddisfatto di tiu Barore, che se sapevo qualche dritta di boxe era solo grazie a lui; che anche le volte che perdevo ai punti era come se avessi vinto, piccolo e mingherlino com’ero; adesso, rimango a guardare quei guantoni appesi in camera, vicino alla foto del mio primo incontro da professionista, e trattengo le lacrime.

In paese mi conoscono tutti, Frank il pugile, e quando passo al bar da Tonio a prendermi il caffè la mattina, c’è sempre qualcuno che mi offre qualcosa.

Il lavoro che faccio non è bellissimo, non è il massimo a cui uno può aspirare, prendere una scopa in mano e pulire le strade dalla merda dei cani, ma a me non importa: è pur sempre un lavoro, non sto mica rubando!

Ogni tanto qualche ragazzino al bar, tra un tempo e l’altro delle partite della Juve, mi chiede di raccontare qualcosa dei miei incontri, dei miei momenti di gloria, e si gasa sentendomi parlare di ganci e montanti e diretti e guardie.

Tiu Barore me lo diceva sempre, che il segreto di tutto è la guardia. Bisogna stare sempre in guardia, sopportare, soffrire e schivare, aspettare il momento opportuno per stendere l’avversario quando abbassa la guardia.

E questo non solo nella boxe…

Mi manca molto tiu Barore. E’ già un anno e mezzo che non c’è più, che il cancro l’ha inghiottito, e ogni tanto vado al cimitero e gli porto qualche fiore.

Mi ricordo sempre il primo giorno che entrai in palestra, quando mi avvicinai da lui e gli dissi che volevo iscrivermi alla scuola di pugilato.

Lui si girò, mi guardò e sorrise.

Avevo quattordici anni e il fisico di un bambino di otto, la faccia mangiata dall’acne, i cappelli tirati all’insù e gli occhi che fremevano.

Nessuno avrebbe scommesso su di me un soldo bucato, ma lui mi disse che se volevo fare pugilato, mi avrebbe aiutato e mi avrebbe insegnato.

Il primo periodo cercai di mettere su qualche chilo, perché quando restavo a petto nudo mi si vedevano le costole e non era un bello spettacolo. Così dopo qualche mese arrivai ad uno stato almeno accettabile, ma ero sempre il più magro e il più mingherlino tra i miei coetanei. Di forza nelle braccia non ne avevo, i miei pugni non facevano molto male ma davano fastidio, e quindi tiu Barore mi faceva allenare sulla resistenza.

Più che un picchiatore ero un incassadore, come diceva qualcuno, uno che ci metteva il cuore, che incassava bene i colpi e che puniva l’avversario ogni volta che questo abbassava la guardia.

Il primo incontro lo feci a quindici anni e mezzo, nella palestra di Peadas, contro uno che aveva la mia stessa età, ma era molto più grosso di me.

Riuscii a reggere per tutti i cinque round, poi alla fine, stanco morto, abbassai la guardia e quello ne approfittò per mollarmene uno sul naso.

Caddi a terra, ma mi rialzai prima che l’arbitro contasse a dieci. Avevo le lacrime agli occhi, ma non volevo mollare, volevo arrivare sino alla fine, restare in piedi sino all’ultimo. Non ci fu un vincitore vero e proprio, perché non c’era nessuno a prendere i punteggi, ma io ero felice lo stesso, ero rimasto in piedi, ce l’avevo fatta.

Arrivai a fare qualche incontro da professionista ma poi la malattia costrinse tiu Barore a stare a letto, perché le ossa non lo reggevano più.

Mollai tutto anche io.

Lui mi disse di continuare, di non abbassare la guardia, e io per un po’ continuai a sfogare la mia rabbia sui sacchi, ma poi non ce la facevo a tornare da lui ogni volta che facevo un incontro e vederlo lì su quel letto, con la morte che gli girava attorno.

Lui tenne alta la guardia per sette anni. Per sette lunghi anni lottò contro il cancro che lo divorava lentamente, che gli sbriciolava le ossa.

L’ultima volta che entrai in palestra mi si strinse il cuore. Tutti quei sacchi mangiati dai topi, il ring mezzo rotto, i muri pieni di muffa, i vetri delle finestre rotti. E tutta quella polvere…

Ogni tanto mi sale in testa di riaprire la vecchia palestra e di rimetterla a nuovo, di rifondare la scuola di pugilato, ma poi realizzo che sarebbe soltanto un modo per sperare di non morire dentro. Ormai ho abbassato la guardia, ho ricevuto il colpo del K.O. che mi ha mandato al tappeto.

Uno… Due… Tre…

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