Guardo dalla finestra della mia camera la neve che cade pallida e fredda sulla Moldava mentre fumo stancamente una sigaretta. Sono carico di assenzio e di questa birra schifosa che fanno qua, che ti gonfia lo stomaco e sembra olio. Mi mancano le birre lager.
Ripenso a questi due anni trascorsi qui, tra il ristorante e i giri per i locali una volta finito il turno.
Fischiettavo i ritornelli di Aretha Franklin mentre Jesus, l’aiutocuoco spagnolo che lavorava con me, fermava ogni bulgaro che incontravamo a Malà Strana per chiedere se aveva dell’erba buona da vendere. Ma volevano tutti fotterci, e per quanto ne capivo io di queste cose, la roba che vendevano non era di prima qualità e i prezzi erano misteriosamente troppo alti.
Decidemmo di entrare al Karlov Lazny, la discoteca a quattro piani, per cercare qualche bruscia che ci facesse divertire.
Jesus trovò finalmente qualcuno che poteva dargli roba buona, cocaina a buon prezzo.
Seguì il bulgaro verso i cessi mentre io mi misi a sedere in un divanetto con Thelma, una ventiduenne inglese che era a Praga per studio, occhi verdi, capelli rossi e culo a mandolino.
Lei cercava di capire quello che io le dicevo in un inglese casereccio, mentre sorseggiava Jagermeinster e rideva ad ogni errore grammaticale che facevo.
Non parlava, forse perché sapeva che non l’avrei capita, e anche perché ormai avevo il cervello pieno di assenzio e inventavo discorsi in inglese a rotazione, sputando frasi senza senso, incuriosito dal fatto che lei rideva senza mandarmi a quel paese e senza tornare dalle sue amiche là in pista, senza inventare una misera scusa balorda per andare via da quell’italiano logorroico che aveva davanti, forse anche per il fatto che quell’italiano le stava offrendo da bere; così dissi do you want to make love with me? E subito ebbi uno yes come risposta.
Passavo a prenderla all’università e poi ci facevamo un giro per piazza Venceslao a rovistare tra i mercatini e i negozietti di musica jazz, che tanto là ascoltano solo quello.
E’ lì che scoprii quella musica magica, travolgente e sensuale, dolce e aggressiva allo stesso tempo.
I ragazzi della mia età a Peadas ascoltavano musica da discoteca, techno, senza impegno e senza sentimento. Al massimo, qualcuno che voleva differenziarsi, aveva qualche cd dei Sex Pistols o degli Eater o dei Clash.
Ma il sax di Charlie Parker, la tromba di Dizzy Gillespie, e poi Sidney Bechet, Glenn Miller, le voci di Bessie Smith e di Billie Holiday erano la colonna sonora delle mie notti praghesi con Thelma. Erano note che ti facevano volare sino alla Torre delle Polveri, ti facevano danzare nella Piazza Vecchia notturna e deserta, ti facevano compagnia nel guardingo Quartiere Ebraico, ti accompagnavano alla ricerca di birrette solitarie nei locali più sperduti.
Lei sembrava rimasta ancora agli anni sessanta, con quei vestiti optical e l’acconciatura alla Cleopatra, con la frangetta marcata e la minigonna, sempre senza rossetto ma con gli occhi ben truccati.
Mi insegnò un po’ di inglese e voleva imparare qualche cosa di sardo, ma la pronuncia non gli permetteva di parlarlo perfettamente, un po’come funzionava per me con la sua lingua.
Come mi piaceva quella modette di Brighton! Passavamo serate intere nei negozi di abbigliamento, visto che lei non sopportava i miei jeans larghi e lisi e il mio giubbotto in pelle. Trovava il mio look un po’ trasandato e così decise di darmi qualche lezione di stile.
Mi portò da un sarto e mi fece fare un abito su misura: pantaloni bianchi aderenti senza pences e con il risvolto all’altezza delle caviglie; giacca, pure questa bianca, a tre bottoni, con sotto una camicia nera, che inizialmente non volevo perché mi ricordava il Duce, e una cravatta bianca attorno al collo. Con le scarpe da bowling che avevo preso il giorno prima stavo una meraviglia.
Mi guardai allo specchio e pensai a mia madre: sembravo vestito a nozze e già me la vedevo piangere davanti a Don Antonio, finalmente orgogliosa di quel povero figlio che si era sistemato.
I giorni passavano e ormai quando finivo in ristorante correvo da lei in biblioteca. Facevamo un giro al centro e poi tornavamo a fare l’amore di notte nel suo appartamento, facendoci spiare dalla Moldava, che si portava via velocemente le nostre stagioni.
Ogni tanto mi chiedeva se l’amavo. Io rispondevo con un sorriso e le accarezzavo i capelli lisci e rossi, poi con una mano le slacciavo il reggiseno e facevamo l’amore.
Lo sapevamo tutt’e due che prima o poi l’incantesimo sarebbe finito, e che lei sarebbe tornata a Brighton ad agosto.
E il fatto è che io non avevo niente da offrire a quella bambolina, povero diavolo com’ero. Non potevo dirle di venire a Peadas con me che mio padre lavorava in comune e non avevo tanche da coltivare. Lei studiava all’università mentre io avevo un misero diploma preso col sessantuno grazie a quel figlio di puttana di professor Marras, che quando ha scoperto che scopavo con sua figlia ha promesso di farmela pagare. Lei è uno sfaccendato perditempo, un bifolco. Così mi diceva quando andavo alla lavagna a fare le derivate. A tutti dava del tu e li chiamava addirittura per nome, tutti tranne me. Ma non ci riuscì a fottermi, che se toglievano la matematica e la fisica dalla pagella, avevo la media dell’otto, e quindi, bene o male, il culo era salvo; fanculo a lui e a quella bruscia di sua figlia.
Qualche volta Thelma mi chiedeva di leggere quei versi stupidi che scrivevo in un quaderno ingiallito, che diceva che le piacevano. Per me erano solo stronzate a cui mi attaccavo quando stavo male e non riuscivo a capire il perché, così lasciavo i miei pensieri liberi di esprimersi e di sfogarsi su quei fogli di carta che poi non leggevo mai, tranne quando era Thelma a chiedermelo. Si preparava qualcosa da bere e ascoltava, poi si sdraiava accanto a me e mi faceva entrare dentro di lei, mentre la Moldava straripante e bastarda ci faceva naufragare verso l’estate.
Quel giorno non mi disse nulla. Mi lasciò un bigliettino con su scritti dei versi che voleva che le leggessi sempre prima di fare l’amore:
…la notte non avrò freddo
perché non sarò sola:
dipingerò il tuo volto
nella solitudine,
per confortare la mia anima.
Ora passeggio sul ponte Carlo, con il freddo di novembre che mi schiaffeggia il viso.
Dalla Moldava riaffiorano ricordi che hanno il profumo di Thelma, e mentre affondo i miei scarponi nella neve pallida e soffice, penso che non riuscirò mai a dimenticarla, che mi ammazzerò dipingendo il suo volto nella solitudine, mentre naufrago in balìa della corrente e dei ricordi di questo stupido fiume.