Autore: Jack Arru

  • Dal quaderno di Jean: Autunno – I

    Guardo dalla finestra della mia camera la neve che cade pallida e fredda sulla Moldava mentre fumo stancamente una sigaretta. Sono carico di assenzio e di questa birra schifosa che fanno qua, che ti gonfia lo stomaco e sembra olio. Mi mancano le birre lager.
    Ripenso a questi due anni trascorsi qui, tra il ristorante e i giri per i locali una volta finito il turno.

    Fischiettavo i ritornelli di Aretha Franklin mentre Jesus, l’aiutocuoco spagnolo che lavorava con me, fermava ogni bulgaro che incontravamo a Malà Strana per chiedere se aveva dell’erba buona da vendere. Ma volevano tutti fotterci, e per quanto ne capivo io di queste cose, la roba che vendevano non era di prima qualità e i prezzi erano misteriosamente troppo alti.
    Decidemmo di entrare al Karlov Lazny, la discoteca a quattro piani, per cercare qualche bruscia che ci facesse divertire.
    Jesus trovò finalmente qualcuno che poteva dargli roba buona, cocaina a buon prezzo.
    Seguì il bulgaro verso i cessi mentre io mi misi a sedere in un divanetto con Thelma, una ventiduenne inglese che era a Praga per studio, occhi verdi, capelli rossi e culo a mandolino.
    Lei cercava di capire quello che io le dicevo in un inglese casereccio, mentre sorseggiava Jagermeinster e rideva ad ogni errore grammaticale che facevo.
    Non parlava, forse perché sapeva che non l’avrei capita, e anche perché ormai avevo il cervello pieno di assenzio e inventavo discorsi in inglese a rotazione, sputando frasi senza senso, incuriosito dal fatto che lei rideva senza mandarmi a quel paese e senza tornare dalle sue amiche là in pista, senza inventare una misera scusa balorda per andare via da quell’italiano logorroico che aveva davanti, forse anche per il fatto che quell’italiano le stava offrendo da bere; così dissi do you want to make love with me? E subito ebbi uno yes come risposta.

    Passavo a prenderla all’università e poi ci facevamo un giro per piazza Venceslao a rovistare tra i mercatini e i negozietti di musica jazz, che tanto là ascoltano solo quello.
    E’ lì che scoprii quella musica magica, travolgente e sensuale, dolce e aggressiva allo stesso tempo.
    I ragazzi della mia età a Peadas ascoltavano musica da discoteca, techno, senza impegno e senza sentimento. Al massimo, qualcuno che voleva differenziarsi, aveva qualche cd dei Sex Pistols o degli Eater o dei Clash.
    Ma il sax di Charlie Parker, la tromba di Dizzy Gillespie, e poi Sidney Bechet, Glenn Miller, le voci di Bessie Smith e di Billie Holiday erano la colonna sonora delle mie notti praghesi con Thelma. Erano note che ti facevano volare sino alla Torre delle Polveri, ti facevano danzare nella Piazza Vecchia notturna e deserta, ti facevano compagnia nel guardingo Quartiere Ebraico, ti accompagnavano alla ricerca di birrette solitarie nei locali più sperduti.

    Lei sembrava rimasta ancora agli anni sessanta, con quei vestiti optical e l’acconciatura alla Cleopatra, con la frangetta marcata e la minigonna, sempre senza rossetto ma con gli occhi ben truccati.
    Mi insegnò un po’ di inglese e voleva imparare qualche cosa di sardo, ma la pronuncia non gli permetteva di parlarlo perfettamente, un po’come funzionava per me con la sua lingua.
    Come mi piaceva quella modette di Brighton! Passavamo serate intere nei negozi di abbigliamento, visto che lei non sopportava i miei jeans larghi e lisi e il mio giubbotto in pelle. Trovava il mio look un po’ trasandato e così decise di darmi qualche lezione di stile.
    Mi portò da un sarto e mi fece fare un abito su misura: pantaloni bianchi aderenti senza pences e con il risvolto all’altezza delle caviglie; giacca, pure questa bianca, a tre bottoni, con sotto una camicia nera, che inizialmente non volevo perché mi ricordava il Duce, e una cravatta bianca attorno al collo. Con le scarpe da bowling che avevo preso il giorno prima stavo una meraviglia.
    Mi guardai allo specchio e pensai a mia madre: sembravo vestito a nozze e già me la vedevo piangere davanti a Don Antonio, finalmente orgogliosa di quel povero figlio che si era sistemato.

    I giorni passavano e ormai quando finivo in ristorante correvo da lei in biblioteca. Facevamo un giro al centro e poi tornavamo a fare l’amore di notte nel suo appartamento, facendoci spiare dalla Moldava, che si portava via velocemente le nostre stagioni.

    Ogni tanto mi chiedeva se l’amavo. Io rispondevo con un sorriso e le accarezzavo i capelli lisci e rossi, poi con una mano le slacciavo il reggiseno e facevamo l’amore.
    Lo sapevamo tutt’e due che prima o poi l’incantesimo sarebbe finito, e che lei sarebbe tornata a Brighton ad agosto.
    E il fatto è che io non avevo niente da offrire a quella bambolina, povero diavolo com’ero. Non potevo dirle di venire a Peadas con me che mio padre lavorava in comune e non avevo tanche da coltivare. Lei studiava all’università mentre io avevo un misero diploma preso col sessantuno grazie a quel figlio di puttana di professor Marras, che quando ha scoperto che scopavo con sua figlia ha promesso di farmela pagare. Lei è uno sfaccendato perditempo, un bifolco. Così mi diceva quando andavo alla lavagna a fare le derivate. A tutti dava del tu e li chiamava addirittura per nome, tutti tranne me. Ma non ci riuscì a fottermi, che se toglievano la matematica e la fisica dalla pagella, avevo la media dell’otto, e quindi, bene o male, il culo era salvo; fanculo a lui e a quella bruscia di sua figlia.

    Qualche volta Thelma mi chiedeva di leggere quei versi stupidi che scrivevo in un quaderno ingiallito, che diceva che le piacevano. Per me erano solo stronzate a cui mi attaccavo quando stavo male e non riuscivo a capire il perché, così lasciavo i miei pensieri liberi di esprimersi e di sfogarsi su quei fogli di carta che poi non leggevo mai, tranne quando era Thelma a chiedermelo. Si preparava qualcosa da bere e ascoltava, poi si sdraiava accanto a me e mi faceva entrare dentro di lei, mentre la Moldava straripante e bastarda ci faceva naufragare verso l’estate.

    Quel giorno non mi disse nulla. Mi lasciò un bigliettino con su scritti dei versi che voleva che le leggessi sempre prima di fare l’amore:

    …la notte non avrò freddo
    perché non sarò sola:
    dipingerò il tuo volto
    nella solitudine,
    per confortare la mia anima.

    Ora passeggio sul ponte Carlo, con il freddo di novembre che mi schiaffeggia il viso.
    Dalla Moldava riaffiorano ricordi che hanno il profumo di Thelma, e mentre affondo i miei scarponi nella neve pallida e soffice, penso che non riuscirò mai a dimenticarla, che mi ammazzerò dipingendo il suo volto nella solitudine, mentre naufrago in balìa della corrente e dei ricordi di questo stupido fiume.

  • Il mare d’inverno

    Sento una stretta al cuore. Fissa.
    E oggi ancora sono qua, davanti al mare d’inverno, solo, che cerco ancora di capire cose inutili, sapori sbiaditi di cui mi rimane un limpido ricordo. Gli schizzi delle onde, trasportati dal vento incontro a me, mi giungono freschi sul volto segnato, non del tutto sorridente. Rimango seduto sulla solita roccia, cumulo di atomi insignificanti che nonostante tutto per me valgono tantissimo, come la tua carne anch’essa prodotto di reazioni chimiche comuni assunse pregi mai provati.

    Perché tutto questo?

    Potrei ben proseguire il mio avanzare nella vita, solitario come tutti i migliori, potrei. Non cerco la risposta, so già che fortunatamente ho ancora una possibilità, in qualche luogo e in qualche tempo, e orgoglioso attendo. La mia antica virilità scomparse sempre più, avvinta di filosofie a me detestate, insulse.
    Mi rifiuto di accettare le comuni cose, le specialità vilmente storpiate.

    Domani avrò quello che ho sempre voluto, ma essendo troppo tardi, non apprezzerò il tuo dono e tutto sarà inutile. Tempo perso. Cibo avariato disgustoso, malato. E’ proprio come dici tu, Giacomo, e stento a crederlo. Mai avrei voluto darti corda, e sempre ottimista rimanevo. Eppur, un modo deve esserci.

    Siamo ancora noi i nostri padroni?

    Le fredde acque invernali spaccano le montagne, le divorano, le sbriciolano senza fatica.

    Buon riposo, amico.

  • Dal quaderno di Jean: Estate – III

    Ovunque e in ogni luogo

    C’è qualcuno che pensa
    di aver pensato
    per poi ricredersi dicendo
    che il pensiero viaggia su strade
    insensate!
    Ma non è anche questo un pensiero?

  • Dal quaderno di Jean: Estate – II

    Lei era modo svestita
    ed i grandi alberi indiscreti
    scagliavano sui vetri le foglie
    vicini, maliziosamente vicini.

    Quel serpente si muoveva in un modo strano, arrapante. Era un serpente verde, con la lingua più biforcuta che avessi mai visto, e ondeggiava, così come ondeggiavano i fianchi su cui era tatuato.

    Io me ne stavo lì, a sorseggiare rum da quattro soldi, mentre quel serpente ondeggiava, mi incantava.

    Lei si era tolta il reggiseno, diedi uno sguardo fugace al suo petto non abbondante, ma che comunque qualcosa poteva offrire, poi passai subito alle mutandine di pizzo rosa. Si avvicinò alla poltrona e si mise sopra di me, con quel nastrino di pizzo ancora attorno ai fianchi. Mi prese le sigarette

    dal taschino della giacca, poi prese un fiammifero e lo accese, sfregandolo sul suo tacco a spillo, con un movimento secco e sensuale; accese la sigaretta e la tenne in bocca. Poi lentamente mi sciolse il nodo della cravatta, mi sbottonò la camicia, aspirò dalla sigaretta, me la mise sulle labbra, e inchinandosi verso di me buttò il fumo sul mio petto sudato.

    Volevo guardare il serpente, quel serpente verde, che dondolava sui suoi fianchi.

    Svuotai il bicchiere e lo poggiai per terra, poi la presi per i fianchi e iniziai a sfilarle le mutandine, pianoŠ con calmaŠ La carne spuntava fuori lentamente, come il sole all’alba, e quando quel nastrino di pizzo toccò terra, sentii una mano che mi slacciava la cintura, mentre l’altra mi toglieva di nuovo la sigaretta dalle labbra. Fece un lungo tiro, poi la buttò sulla moquette, mi passò un braccio attorno al collo e mi si avvicinò portando le sue labbra vicine alle mie, così dannatamente vicine che mi sfiorarono soltanto, passandomi il fumo dalla sua bocca alla mia.

    Non c’era niente di simile a Peadas, non c’erano ragazze che dondolavano sinuose come foglie, che avevano serpenti tatuati sui fianchi. Al massimo avevano qualche piercing nell’ombelico, o sulla lingua, che ormai ce l’hanno tutte, o una farfallina sulla spalla. Ma nessuna ha un serpente verde tatuato sui fianchi, che danza e che ti guarda, ti ipnotizza.

    Mi ritrovai in sella a cavalcare il serpente. Danzava e dondolava, guardandomi. Lui ondeggiava e io andavo in paradiso. Mandrie di cavalli mi percorrevano la schiena, come carovane nel deserto. Brividi caldi mi attraversavano, palme scosse dal vento, torrenti schiumosi mi facevano naufragare, fiori notturni sbocciavano in prati verdi, gli oboi suonavano,

    sentivo profumi che possedevano il respiro delle cose infinite: come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso, e cantavano i moti dell’anima e dei sensi.

    Un mare di lava mi trasportava, e il serpente danzava, ondeggiando sempre più veloce, sempre di più. Suoni cristallini sbattevano sui vetri in plexiglas, e ritornavano indietro; prima leggeri mugolii, poi gemiti dolci, poi di più, poi urla di piacere, ed eccomi lì, eccomi in paradiso…

    Lei era molto svestita
    ed i grandi alberi indiscreti
    scagliavano sui vetri le foglie
    vicini, maliziosamente vicini.

  • Dal quaderno di Jean: Estate – I

    Le Danzatrici

    Danzate, o mie dame patetiche e inette,
    nella densa fanghiglia della vostra vacuità.
    Sozze e noiose, non mi fate che pietà
    movendovi alacri come vecchie marionette.

    Dimenatevi, o mie dame odiose e procaci;
    infettate le mie salive
    di baci putridi e melmosi. O! Dive
    dalla pelle squamosa e dai gemiti fallaci,

    sfogate gli affanni e le angosce profonde.
    Spezzatevi le ossa, danzatrici da niente,
    e sbattete con forza le laidezze rotonde.

    Danzate e dimenatevi, orsù! Siete contente?
    Stelle fallite e prive di valore,
    ho ancora sulla pelle il vostro rancido fetore.

  • Dal quaderno di Jean: Primavera – III

    Fantasie

    Quando arriverà il grande sonno
    lascerò la città di marmo,
    e tesserò le mie lodi
    al Demone che tutti conoscete.

    E quando il cielo silente crollerà
    vagherò nelle vene dell’inferno,
    cercando
    un’amica da amare

    La notte non avrò freddo
    perché non sarò solo:
    dipingerò il tuo volto nella solitudine
    per confortare la mia anima.

  • All’Amore

    Non piangere Amore,
    hai già versato sangue,
    troppa speme deprecata
    ha visto il tenero cuore;

    Non soffrire più il mondo
    pesante, vile, velenoso,
    smettila di chiamare
    quel padre che non c’è.

    Accetta infine ciò
    che non avrai, vita
    sublime orgoglio rimane,
    sguardo vitreo negato.

  • Dal quaderno di Jean: Primavera – II

    Sono di un blu pallido e profondo, gli occhi di Lucia. Sono occhi che parlano, occhi che ti avvolgono e che ti disarmano. Sono occhi che raccontano, occhi che hanno visto tanto, troppo forse, in così poco tempo. Occhi che hanno passato tante notti insonni a chiedersi un perché, a covare rabbia contro tutto e contro tutti. Sono occhi che hanno pianto lacrime amare per un padre inesistente, e per una madre forse troppo giovane per poter amare quegli occhi…

    Protetta nel suo cappottino arancione, Lucia siede accanto al finestrino dello stesso autobus che ogni giorno da Sassari la riporta a Peadas. Nei suoi occhi fragili c’è un passato fatto di pianti notturni, soffocati sotto un cuscino, per una famiglia che l’ha costretta a vivere in una gabbia di cristallo, come un diamante in un museo.

    I genitori, testimoni di Geova, la tengono rinchiusa fra casa e scuola, mai uscire un sabato, quasi mai andare ad una festa di compleanno, o in giro con le amiche, o al cinema con un ragazzo.

    Lucia non ha mai baciato, mai dato un bacio d’amore, di quell’amore quindicenne e folle come i sogni di una vita diversa, lontana dalle cene d’affari del padre, dalle borse di studio e dalle medie del nove. Avrebbe voluto tanto una vita da passare a rincorrersi sotto la pioggia di notte o a dormire sui prati e a sorridere, felicemente sorridere…

    Quando era piccola, Lucia entrava di nascosto nella camera della madre e dall’armadio prendeva i suoi vestiti da sera, le sue scarpe, le collane, gli anelli e i bracciali, poi si metteva davanti allo specchio e faceva finta di essere stata invitata ad un ballo da un principe giovane e bello, così stringeva al petto il suo pupazzo preferito e muoveva passi di danza, con i suoi occhi allegri e spensierati. Ma quella fantasia doveva durare poco, e infatti subito dopo aveva già messo tutto in ordine, altrimenti la mamma si sarebbe arrabbiata vedendola giocare con le sue cose private, con i suoi vestiti e i suoi gioielli, senza rendersi conto che le gemme più preziose erano gli occhi felici di una bambina che sognava di diventare grande, e di poter trovare la felicità in un amore mai ricevuto.

    E pensare che, belli come sono, quegli occhi potrebbero essere le Muse ispiratrici per chissà quanti Omeri.

    Lucia adesso siede distratta in una panchina della stazione che è piena di gente, che pullula di suoni, di grida e di emozioni di tutti quei corpi che le girano attorno, che salgono e scendono dai pullman, di quella gente che va e viene.

    Chissà a cosa pensa Lucia, che cosa vede adesso. Chissà che viaggi straordinari sta facendo con la testa, in quell’universo tutto suo, chissà se sta partecipando ad una cena a lume di candela, con un principe bellissimo, nel ristorante più chic di Parigi, o se semplicemente sta mangiando una pizza con gli amici. Chissà quante volte fa sogni del genere Lucia, quante volte vorrebbe trasformare quei sogni in realtà…

    Ecco il solito pullman, che la riporterà a Peadas. Si ferma proprio davanti a lei.

    Gli studenti si ammucchiano davanti all’entrata e si fanno spazio a suon di spinte per arrivare per primi nel loggione, nel posto dove si siedono i duri, secondo loro. Salgono anche le casalinghe con i bustoni della spesa, e le vecchie grasse e culone che rientrano dagli ospedali. Qualcuno inizia a lanciare palline di carta, qualcun altro scarabocchia il suo nome nei sedili in plastica, altri ancora ascoltano musica con le radio portatili. Vecchie e casalinghe iniziano a spettegolare tra di loro nei posti di davanti, mentre qualche ritardatario si appresta a salire e a tirar fuori dalle tasche il biglietto. Il pullman chiude la portiera e mette in moto. Fa retromarcia e si appresta a dirigersi verso l’uscita quando dal loggione si sente la voce di una ragazzina:

    -Aspetti! C’è una ragazza che deve salire!- Apre il finestrino, si affaccia e urla:

     -Lucia! O Lucì, ajò muoviti che ti sta aspettando.

    Lucia alza la testa all’improvviso, come quando si fanno i brutti sogni di notte. Quella voce aveva interrotto i suoi pensieri. Poi si ricorda che deve prendere il pullman, che deve ritornare a casa, alla solita routine.

    Si alza a malincuore, prende lo zaino e fa per dirigersi verso il pullman, quando all’improvviso si blocca.

    -Ajo Lucì, che se no ti lascia qui l’autista- grida quella voce dal finestrino.

    Lucia resta immobile per qualche secondo, poi sospira, e finalmente sorride.

    Un sorriso fresco e pulito come il vento di primavera e chiaro come la luna in uno stagno.

    I suoi occhi adesso sono più azzurri che mai, e ridono e risplendono nel sole di maggio che illumina la stazione deserta.

    -Andate pure, io resto qui!

  • Dal quaderno di Jean: Primavera – I

    Nel mobile della sala c’era una foto che ritraeva me e Andrea esultanti negli spogliatoi del campo sportivo dell’Olympia dopo una partita vinta. Avrà avuto circa sedici anni in quella foto e indossava dei jeans sdruciti e una maglietta nera, come i suoi lunghi capelli. Aveva quel sorriso spesso irascibile e il mare in tempesta negli occhi.

    Come calciatore era davvero forte, quel giorno in particolare aveva bucato il portiere avversario per tre o quattro volte ed era oggettivamente felice. Una volta vennero al campo sportivo dei tizi di Roma che volevano portarlo a giocare là da loro, avevano già il contratto pronto: un milione al mese per i primi due anni, più studi pagati, ma il padre, lurido ubriacone, diceva che il suo mestiere non era quello di tirare calci alla palla, che suo figlio ci aveva perso anche troppo tempo a correre dietro a quella sfera di cuoio e che avrebbe fatto meglio ad andare in campagna ad aiutare il fratello più grande.

    Andrea non odiava suo padre. Sebbene lo maltrattasse e lo umiliasse davanti a tutti, non provava odio per quel vedovo sporco e alcolizzato. Avrebbe voluto ucciderlo, certo, più di una volta. Come lui aveva fatto morire la moglie.

    Ma non lo odiava.

    Me la ricorderò per sempre zia Giovanna Palmas, buonanima, bassa e mingherlina com’era, che profumava sempre di sapone di Marsiglia e che mi faceva il caffè più buono che al bar.

    Era sempre gentile con tutti, con quel suo sorriso tranquillo e roseo e quegli occhi chiari che facevano risaltare ancor di più la sua pelle bianca e lentigginosa.

    Riuscivi a capire che Andrea era suo figlio guardandolo negli occhi, solo che quelli di zia Giovanna erano molto più tristi, quasi malati.

    Era colpa del marito, Barore Piga, che aveva il vizio del gioco e che una volta aveva perso la casa in una bisca al vecchio circolo dei cacciatori. Da quel giorno gli occhi azzurri di zia Giovanna si fecero sempre più tristi per la vergogna, e il suo cuore cominciò a battere un ritmo sempre più irregolare, sino a quando non resse più, sino a quando non scoppiò. E pensare che era riuscita a far promettere al marito che non avrebbe più giocato a carte, mai più, neanche all’oratorio davanti a Don Antonio, dove non si può scommettere e si gioca solo per passare il tempo, solo per non stare a bestemmiare dentro al bar contro il governo e la pioggia e chissà cos’altro.

    E invece Barore una notte tornò a casa biascicando bestemmie a squarciagola.

    Chissà per quante ore era rimasta sveglia ad attendere il marito zia Giovanna.

    Chissà quanto aveva lavorato a maglia quella notte, e quanti balli sincopati aveva fatto il suo cuore.

    Quando sentì che urlava maledizioni per la strada, corse fuori e lo portò in casa, vergognandosi per tutto quel baccano che stava facendo.

    Il suo cuore batteva a mille all’ora mentre dalla bocca di Barore strisciavano fuori come viscidi lombrichi parole che zia Giovanna temeva di dover sentire, ma a cui non voleva pensare, confidando nella promessa del marito.

    Parole che significavano soldi persi giocando a mariglia a casa di quell’usuraio di Michele Piana.

    Molti soldi.

    Il cuore ballerino di zia Giovanna inciampò e cadde per non rialzarsi più.

    Andrea non volle andare al funerale di sua madre e non rimase neanche in casa a sentirsi dire s’iscureddu dalle zie, che non aveva bisogno della loro pietà.

    Andammo al campetto dietro alla chiesa e mai vidi il pallone schiantarsi così violentemente contro il muro dell’oratorio.

    Mi chiese se poteva dormire a casa mia quella notte, che non voleva…

    Dissi di sì, interrompendolo, che intanto già avevo capito che non voleva rimanere a casa sua a vedere il padre davanti alla bottiglia di filuferru, mentre piangeva la povera moglie.

    Alcuni mesi dopo uno zio del continente gli trovò un lavoro in fabbrica su a Cuneo e lui non ci pensò due volte e appena diciassettenne se ne andò da Peadas.

    Dodici anni dopo, per Natale, mi mandò una lettera dove diceva che là si trovava bene, che stava lavorando in una acciaieria e che si era preso il diploma da privatista e grazie a questo aveva ottenuto un posto di riguardo e non doveva fare altro che stare otto ore al giorno nel suo ufficio davanti al computer, che lo stipendio era buono e che aveva voglia di vedermi, magari per dare due calci al pallone come ai vecchi tempi.

    Nella lettera diceva anche che si doveva sposare con una donna stupenda, e che tra poche settimane sarebbe nata Giovanna, sua figlia, e che sarebbe stato contento se io l’avessi battezzata.

    Adesso che sono in questa chiesa di Cuneo con l’odore dell’incenso che mi soffoca i polmoni, penso alle corse sull’erba verde di Andrea col numero sette sulle spalle, al caffè buono che mi faceva zia Giovanna e al suo profumo di sapone di Marsiglia.

    Penso a come la vita possa tornare a sorriderti mentre guardo Andrea e Marcella che si giurano fedeltà eterna, e mentre tengo tra le braccia questa piccola creatura, che mi osserva incuriosita con i suoi grandi occhini azzurri.

  • Senza senso – II

    Inutile e stupido alquanto,
    signore e signori, è
    cercar con tanto affanno
    un certo senso nella vita,

    le direzioni cambian spesso
    e ancor di più si contrappongono,
    non badate alla filosofia
    del più oscuro tra gli oracoli,

    tappatevi le orecchie! miei figlioli,
    casalinghe, troie, gran lavoratori
    non seguite il buon profumo
    di denari, genitori, tette e culi sorridenti,
    che al buon nome sol contestano.

    Riverenti siate, o genti,
    solamente al cuor che duole
    e coraggioso, unico decide
    la sorte nostra e del futuro.