Autore: Jack Arru

  • Dal quaderno di Jean: Inverno – III

    A volte penso che sia tutto già scritto, tutto già deciso, e che noi non possiamo farci nulla. Penso che lassù in fin dei conti non ci siano molte anime buone, ma solo una bruscia bastarda che apre le cosce e mostra la mercanzia, e ci fa credere che in questo inferno di mondo tutto sommato sia rimasto ancora un briciolo di giustizia, e che prima o poi, dopo aver passato una vita a ingoiare merda e a pregare inutilmente, prima o poi dovremo arrivarci lassù, e anche noi c uniremo agli altri in un’orgia universale e liberatrice, ottenendo la meritata ricompensa dopo una vita passata ad invecchiare senza senso.

    E invece la bruscia si diverte, ci prende in giro e ride, e quando meno ce lo aspettiamo allunga la sua lingua e ad uno ad uno ci prende e ci rinchiude in una cassa di mogano.

    Si dice che Dio si circonda sempre dei migliori, che è lui a prendersi i cuori nobili e a lasciare, in questo ammasso schifoso di terra e mare, in questa palla che gira e gira e gira all’infinito, sempre nello stesso verso, proprio qui lui lascia i non meritevoli della sua gloria, in questo inferno a continuare a vivere da peccatori, a patire e soffrire e bestemmiare e sputare in questo schifo di mondo, ma continuando a vivere, che nessuno vuole morire, nessuno è così ansioso di andare a trovare Dio.

    Che poi da lassù non è tornato mai nessuno a dirmi che sta bene, che un po’ gli manco, ma che tutto sommato sta in un posto tranquillo, con la birra bella fresca e le cameriere gentili e carine.

    Ecco quello che rimane.

    Solo una lastra di marmo grigia e lucida con molti fiori e una foto sorridente, bagnata dalla lacrime di chi ancora vive all’inferno, in questo inferno, e che piange e si dispera, si fa divorare dalla desolazione e dalla rabbia.

    Quando quel mostro nero faceva nitrire tutti i suoi cavalli e affrontava le curve senza scalare di marcia, e si riempiva di grida di paura, di preghiere, di incubi, chissà che cos’ha pensato in quel momento, quando ha visto la macchina fuori controllo che andava dritta verso la morte, chissà se ha avuto il tempo di pensare a quello che stava succedendo, chissà se si è reso conto, o se davanti ai suoi occhi aveva solo il buio e il freddo di quella notte.

    Forse non avrebbe dovuto sedersi in quella macchina, o avrebbe dovuto allacciarsi almeno la cintura, forse quello che stava al volante doveva rallentare, o non bere così tanto, forse non sarebbe dovuto andare a Saccargia, a quella festa, e fare così tardi, si… forse…

    Ora che dalla finestra guardo il vuoto, lo stesso vuoto che ho dentro, che non mi da il coraggio di andare avanti, di affrontare lo stesso inferno di sempre a testa alta; ora che non ho neanche la forza di piangere, che non ho più niente, che vorrei sciogliermi come fango e sprofondare in un abisso scuro e buio; ora, proprio ora che ne ho così tanto bisogno, ora che ho bisogno di lui, dov’è Dio?

    Ci guarda ancora da lassù, ci fa girare tutti cose se fossimo delle trottole pazze nelle sue mani, ci prende in giro, ci fa soffrire.

    Sta meglio lì, a passare il tempo ridendo di noi, che tanto qui ci viene solo per farci piangere…

  • Dal quaderno di Jean: Inverno – II

    Non è facile quando hai una pistola puntata alla bocca.

    Non è per niente facile.

    Sei dentro la tua macchina che vai al bar, come ogni sabato, e lo stereo appena comprato ti manda a palla l’hammond di Green Onions, quando incroci la macchina di Tore Corrias.

    Esce subito e ti dice che sei morto. E’ incazzato per il fatto che hai messo incinta Fabiana, la sorella, che è sposata con uno stronzo magnacaula di Sassari. A Peadas lo sanno tutti tranne che i familiari di Fabiana. Ma pare che la voce sia arrivata anche a Tore.

    Esci dalla tua macchina e gli dici che lui non c’entra un cazzo, che è una cosa che riguarda te e sua sorella, ma non fai neanche in tempo a finire che ti ritrovi contro un muro con una pistola puntata dritta alla tua bocca.

    Non sai se cagarti dalla paura o se reagire, vorresti fare di tutto ma sei paralizzato.

    I coglioni diventano piccoli piccoli, e duri come il ferro. Ti pesano in un modo assurdo.

    Il cuore ti sale in gola e provi a mandarlo giù, deglutendo la saliva che ti cola dalla bocca.

    Dallo stomaco, come vomito, risalgono preghiere che avevi dimenticato da un pezzo.

    Il cervello pensa cento milioni di cose contemporaneamente, ma il corpo non esiste più, non lo manovri, non ce l’hai.

    Ad un certo punto non riesci a vedere nient’altro all’infuori di quella canna lucida e scura puntata contro di te.

    Pensi che la tua fine può passare da un momento all’altro attraverso quella canna e venire a spappolarti il cranio.

    Il bastardo che tiene la pistola ha un alito che puzza di cinghiale morto.

    Ti parla e si agita, sbattendoti quel cannone sui denti.

    Non sai come uscire da questo casino, perché non puoi uscirne.

    -Anche se mi spari, là dentro il bar la gente sentirà il colpo. Come farai?

    -Non sono problemi tuoi – ti risponde.

    E’ fottutamente stronzo questo qui, buccirussu.

    Però gli hai messo paura. Ti dice di salire in macchina.

    Ma questo stronzo è più nervoso di te: gli cadono le chiavi della sua Lancia.

    Ti punta contro l’arma e si inchina per prenderle.

    Lo stereo si blocca, poi riparte con lo stesso hammond: ti ricordi di aver azionato il repeat.

    Tore tasta per terra con la mano cercando le chiavi, ma non le trova e così si volta per mezzo secondo, tenendo sempre la pistola puntata verso di te.

    Gli sferri un calcio alla mano, e la pistola va a sbattersi contro la sua macchina, lasciando partire un colpo.

    Dai un altro calcio a Tore, stavolta nello stomaco, ma lui ti prende la gamba fra le mani e ti butta a terra. Va a prendere la pistola ma riesci a bloccarlo con uno sgambetto. Gli salti sopra e gli sferri due pugni. Ma quel bastardo è più grosso di te e riesce a girarsi. Ora è lui sopra di te. Ti tira un pugno, un altro, poi un altro e un altro ancora. Il sangue ti cola dal sopracciglio sinistro, mentre quello stronzo continua a tirare pugni. Riesce a prendere la pistola e te la punta contro. Gli tieni le mani, cerchi di resistere. Senti in lontananza le sirene dei carabinieri, qualcuno deve averli avvisati.

    Stai per togliergli la pistola dalle mani, quando all’improvviso parte un colpo…

    Sei circondato da tante sirene, qualcuno sta chiamando un’ambulanza, Tore ha le manette strette ai polsi e lo portano via. In tanti urlano, alcuni piangono, molti restano in casa a guardare da dietro le tende delle loro finestre.

    I tuoi amici accorsi dal bar ti si stringono attorno, due vanno ad avvisare tuo padre. Non senti più niente, il tuo corpo non risponde. Hai freddo. Nel buio della notte i tuoi occhi riescono a vedere solo un bianco pallido.

    Green Onions riparte con il suo hammond…

  • Dal quaderno di Jean: Inverno – I

    Din don dan, din don dan; per chi suonan le campane, chi mai sarà? Si chiedono in paese.

    Il segno della croce si fan le perpetue che già sono in chiesa, come se già lo sapessero chi doveva morire, ma stavolta così non è.

    Din don dan, din don dan; il morto chi è? chi è che lo sa? Qualcuno dice che è tiu Bainzu Canu, che ormai alla sua età bisognava aspettarselo, che con la testa non c’era più ed erano molti mesi che non si spostava da quel letto.

    Ma lui non è, lui non è.

    Din don dan, din don dan; se non è lui chi mai sarà? Peppina Cabras non può essere, l’ho vista stamattina in chiesa e stava bene, dice zia Mantoi. Coro meu! Non le sarà successo qualcosa, che alla sua età a vivere da sola non si sa mai?!

    Ma non è lei! No, lei non è.

    Din don dan, din don dan; questa campana per chi suonerà? Non sarà mica Ginetto, povero diavolo, che anche lui se l’è cercata con quella roba che si prendeva; e povera la madre che si l’hat deffidu battagliare. Tutte in coro: s’iscureddu. E poi a casa a spettegolare in privato; ma non vi affannate, che non è lui.

    Din don dan, din don dan; ajò, chi è che lo sa? Penso che sia la mamma di Cristina Loriga, sa e sa buttega, che era all’ospedale per un ictus. Non lei non è, che la sorella l’ho vista venendo in chiesa. E allora chi è, chi mai sarà?

    Din don dan, din don dan; Don Antonio quando arriverà? Lui di certo sa chi è, e il nome del morto ci dirà, così andremo a trovarlo e faremo la gara a chi piange di più.

    Din don dan, din don dan; ecco Don Antonio che il nome ci dirà! Una ragazzina di buona famiglia, s’iscuredda, cosa significa impiccata? Ma quando mai. Deus meu! Ma Don Antò, il nome non si sa? Silvia Satta?! Sa fizza de s’americanu? Capito tutto! Grazie Don Antò, sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.

    Din don dan, din don dan; il cappio ormai tolto le han, e già vestita e deposta sul letto, la madre la guarda senza piangere, perché ancora non realizza, ma su babbu inue ch’este? Mantò, il babbo dov’è? E’ li nell’angolo, lo vedi che sta piangendo. E ci sono tutti gli zii, finza su padrinu dae Tissi, dev’essere arrivato da poco. Il fratellino dov’è? L’ha vista lui per primo appesa alla corda?! Ohi, Deus Meu caru!

    Din don dan, din don dan; Silvia dorme nel suo nuovo letto, ignara di tutti quei corpi che le piangono attorno. Se n’è andata senza dire nulla, senza motivo, pensano in tanti.

    Il motivo sta dentro la sua pancia da due mesi.

  • Il cimitero dei sentimenti

    Il cimitero dei sentimenti
    andrò dispiegando a rari
    amici savi del mio animo,

    i resti del comando glorioso
    che nel tempo dei sorrisi
    imbastirono mio fanciullino
    è meglio condividere, ché

    a conoscenza umana alquanto
    giusto è, cooperare pel futuro
    tra filosofi del natural difetto.

  • Lisa è in Inghilterra

    La cameriera andava avanti e indietro tra i tavoli, distribuendo la birra ai vari clienti. Io e Willy osservavamo con attenzione il suo culetto muoversi dolcemente, in maniera arrapante. Era una serata qualsiasi dell’anno scorso, e tutti i giorni eravamo lì a ingurgitare birra nera, come se avessimo fatto ormai parte dell’arredamento. Prendevamo sempre lo stesso tavolo, stesse sedie, stessa posizione. Era quello il nostro locale preferito, da tre mesi o giù di lì.

    “Lisa mi ha lasciato”, mi disse a un certo punto il mio amico. Io continuai a giochicchiare con il bicchiere. Disegnavo col dito nella condensa. Passò qualche minuto. A un certo punto presi a ridere. Guardai Willy negli occhi: lui non rideva.

    Presi qualche secondo, poi risposi semplicemente con un “Angela mi ha lasciato”, lasciandolo di stucco.

    Passò così un altro quarto d’ora, e un’altra pinta di stout entrò nel nostro stomaco. I bicchieri erano stati nel frattempo nuovamente riempiti dalla nostra cameriera preferita. Ho sempre trovato eccitanti le cameriere. A dirla tutta, anche le bariste. Insomma, tutte le donne che lavorano da qualche parte, ma specialmente le cameriere. Indossava dei pantaloni neri, come piacciono a me, tondi tondi, aderenti, gonfi, carnosi, succosi. Bei pantaloni.

    “Mi dispiace”, dissi a Willy.
    “Anche a me”, rispose.
    “Perché ti ha lasciato?”
    “Non lo so.”
    “Che coincidenza! Anche io non so perché la mia ragazza mi ha lasciato!”, dissi io.
    “Mi ha lasciato ed è partita in Inghilterra.”, disse lui.
    “Ah! Scommetto che in questo preciso momento lo sta succhiando a qualche spagnolo!”
    “E perché proprio ad uno spagnolo?”
    “Beh si sa che è pieno di spagnoli da quelle parti, e sono tutti in cerca di fica.”
    “Noooo! Lei non lo farebbe mai…”
    “Ah! Ah! Ah! Ah! Che cazzone che sei!”, gli risi in faccia.

    Poi ripresi il discorso “Non vorrei farti rodere il fegato, ma sono sicuro che è proprio così! Se ti ha lasciato e poi è partita… Chiamala e chiedile se sta facendo molti pompini ultimamente, così ti togli il dubbio!”
    “Eh, certo! Così ho proprio chiuso! Lei è una ragazza in gamba. Anche se effettivamente questa storia mi puzza, mi ha anche detto che lì sta bene e non vuole più tornare…”
    “Willy, è meglio che io stia zitto. Non so cosa potrei dire se continuassi…”
    “Hai ragione, non dire niente. Bevi.”

  • Tequila

    E mi sento già vissuto,

    dentro alla massa senza senso,

    gran prestigio già scaduto

    seggo solo, e vecchio penso

    al vino mio migliore

    degli anni miei svaniti.

  • Non ti scordar di me

    Non ti scordar di me,
    patetica bambina
    dalle incolmabili paure,
    tempio di insicurezze
    senza speranza.

    Non trattarmi come
    un temporale estivo,
    una semplice parentesi
    tra le tue aleatorie frasi,
    ma decorami delle mie virtù.

    Rimembra per sempre
    il mio gentile animo,
    e vaga zoppicante nel deserto
    delle tue emozioni,
    o stolta e miserabile creatura.

  • Le notti di Porto Torres

    Le notti di Porto Torres
    guardando il mare e le stelle,
    l’orizzonte, l’infinito,
    ho voglia di cantare

    così tanto d’emozione
    mi combatte dentro al petto
    rimembrando il dolce amore,
    di quei dì così perfetto.

    Or sol, l’animo mio tristo
    si compiace d’avventure
    con la donna prima amica,
    che ancor luccicante vedo

    per le strade, vie, campagne,
    acque e lidi sconosciuti,
    grandi cose furon fatte
    da due amanti ormai perduti.

  • Senza senso – I

    Vivete senza senso,
    o fratelli, e assaporate
    la più dolce delle fantasie
    spontanea e sincera,
    lussuriosa e pura,
    morbida accogliente,
    rischiosa ed appagante.

    Vorrete mai rinunziare?
    Di cotanta beatitudine
    siate orgogliosi, maestri,
    ché sì pochi posson
    stringer dentro sé
    di tal semplicità
    ‘l gran segreto.

    Un unico monito
    rivolgo alle mie genti:
    non corriate trascinati
    da li fiumi scoordinati,
    non seguite mai l’altrui ideali,
    sicché vostra vita non
    divenga estraneo oggetto.

  • Tipiche serate irlandesi

    Era una bella serata lì al Victoria. Il lunedì non c’era mai molta gente e si giocava bene. Nel juke boxe giravano a rotazione le nostre canzoni preferite, e la partita si era fatta interessante. Jean era indietro di due piene mentre io andavo alla grande: mi mancava solo una mezza e poi la nera. Il cd dei Ramones ripartiva un’altra volta.

    Le nuvole di fumo assumevano varie sfumature di colori violacei sotto i neon della sala, e non c’era niente di più rilassante che trovarsi nel proprio habitat ideale, un ambiente che sembrava progettato proprio per noi. Sorseggiavo la mia fredda stout e mi preparavo a sferrare il prossimo colpo, pregustando la vittoria, quando la mia attenzione fu distolta da una persona dall’altra parte del tavolo. Quando si accorse che guardavo in quella direzione, si avvicinò lentamente. Era una bionda, occhi azzurro chiaro e qualche lentiggine rossa sul volto. Se non fosse stata così grassa forse sarebbe stata l’ideale per uscire dopo la partita. Si vedeva che era un po’ timida, ma si fece coraggio e chiese se eravamo italiani. Per farla breve, le sue amiche volevano conoscerci.

    Non riuscivamo a capire come quelle ragazze irlandesi potessero sapere che eravamo italiani. Avevano un qualche fiuto particolare per queste cose? Oppure riuscivano a capire le frequenti imprecazioni prodotte dalle nostre corde vocali? Probabilmente le due ipotesi erano entrambe veritiere, e comunque fosse, ormai eravamo in ballo e non ci importava.

    Dissi che si poteva fare, in fondo ci andava sempre di conoscere qualche giovane donna locale, e non avevamo nulla in contrario, ma avrebbero dovuto aspettare: avremmo finito la partita e poi gli avremmo dato corda.

    Dopo due turni sterili passati a riflettere sull’accaduto, ma soprattutto, a organizzare mentalmente i momenti successivi, misi in buca la mezza e subito dopo la nera. Un “Bastardo!” uscì avvilito dalla bocca del mio avversario. Il mio sorriso in quel momento sfoggiava potenza e maestria. Mi avvicinai alle babies con la stecca ancora in mano, aria da fanfarone, e mi presentai. Su quattro, una sola era carina: ragazza atipica per il posto, capello castano raccolto in una coda e giubbino adidas free style, trucco assente e sigaretta in bocca.

    Nel frattempo che ascoltavo le loro minchiate in lingua originale, del tipo “Che cosa fai” – “Da dove vieni” – “Quanti anni hai” si avvicinò Jean, incazzato perché aveva perso e voleva giocare di nuovo. Un altro pound entrò così nella fessura del biliardo, e le palle tornarono nuovamente nel triangolo.

    Erano educate, le ragazze. Mentre giocavamo, aspettavano diligentemente sedute nell’angolo, zitte.

    La partita durò un quarto d’ora circa, e ne seguirono altre tre. A un certo punto mi ricordai di loro e dissi al mio amico che non era carino da parte nostra continuare a trastullarci e forse sarebbe stato meglio chiudere la partita. Ci saremmo rivisti l’indomani al Burgerland, al lavoro. Così, posate le stecche e dopo un affettuoso saluto, Jean tornò a casa sua sopra il bus n°5, linea rossa, direzione Bishopstown.

    Fatto cenno, le ragazze si alzarono in piedi e si avvicinarono. Quella carina voleva scambiare due chiacchiere, così andammo in disparte vicino al fiume, a pochi metri dall’ingresso del locale, a parlare.

    Si chiamava Yvonne, aveva capelli bruni e occhi castani, bello sguardo, apparentemente simpatica. Le nostre sagome si riflettevano sulle acque del Lee, il fiume più calmo che io abbia mai visto. Peccato che non lo tenessero pulito, e anche se ogni tanto, trascinata dalla corrente, ti passava sotto gli occhi una bottiglia di plastica, a me piaceva andare a riflettere sull’argine.

    La ragazza mi fece ascoltare delle canzoni dal suo walkman: era roba commerciale, canzoni che durano tre mesi e poi scompaiono, come C’est la Vie o Ghetto Suppastar… insomma, roba che mi faceva cagare.

    “Ti piace questa musica?” mi chiese a un tratto.

    “Carina, sicuro!” dissi ridendo.

    “Perché ridi allora?”

    “Questo pezzo è allegro, mi mette allegria. Ti hanno mai detto che hai degli occhi incantevoli?”

    Avevo sempre la cattiva abitudine di fare complimenti quando non c’entravano niente. Non potevo farci nulla, li facevo a tutte le ragazze con cui parlavo, senza neanche quasi farci caso, anche se non volevo fare colpo su di loro; anzi, mi divertivo di più, cercavo di conoscere le loro reazioni. Avevo l’inconscia intenzione di imbarazzarle nel momento più inaspettato.

    Infatti Yvonne rimase zitta e sorrise. C’ero riuscito. Non so se definirmi stronzo o mitico.

    Bishopstown era una delle mie vie preferite di Cork, perché c’era tutto quello mi occorreva. Irish Pub, shop 24 ore e un fast food sempre aperto. Mentre mi facevo accompagnare a casa comprai così del succo d’arancia e un pacchetto di Dunhill lights al distributore di benzina all’angolo.

    La passeggiata era stata lunga, ed ero un po’ stanco.

    “Ti va di andare dai miei amici?” mi chiese. Tirai fuori una scusa balorda, del tipo “Mi fa male il ginocchio”, e mentre chiudevo la porta di casa le dissi che ci saremmo beccati dopo.

    La cena era sempre uno schifo: uova fredde con ketchup, pollo con marmellata e ovviamente patate fritte. Catherine, la padrona di casa, era una tipica mamma irish che, non per colpa sua, preparava il solito schifo tutti i giorni. E’ veramente strano per noi mediterranei andare a vivere nei paesi anglosassoni, perché ci si ritrova davanti a tanti compromessi che, anche se più o meno pareggiano i conti, non fanno certo piacere. Come l’appagamento nel bere una stout “ultraterrena” per poi quasi vomitare mangiando tacchino con lo zucchero, oppure vedere tanta perfezione e pulizia in ogni angolo della strada, sapendo che poi il 70% delle persone che ci camminano sopra hanno il culo sporco di merda. Insomma, bisogna abituarsi, ma dopo il primo anno non ci si fa più caso. Proprio da un anno io e Jean eravamo fuggiti dal quel casino di vita che avevamo in Italia, nella nostra città natale. La decisone era stata presa abbastanza in fretta, durante l’ora di latino a scuola, e più precisamente nel corso di una partita a forza quattro. Per caso era saltato fuori il discorso di cambiare tutto, ricominciare daccapo: scrollarsi di dosso tutta la melma che ci si era appiccicata addosso nel corso degli anni, e realizzare il sogno di organizzare da soli la nostra vita. Ci eravamo accorti di aver perso le nostre vere identità a causa di un sistema errato, un’educazione forzata che non volevamo e tante amare rinunce.

    Finita la cena giocai un po’ col Nintendo di Tom, il mio compagno di stanza, poi mi cambiai di vestito e uscii a fare due passi. Poco lontano, tra un caseggiato rosso che era sede di una compagnia di assicurazioni e il solito rifornitore vidi delle persone sedute in un piccolissimo green. Un fischio richiamò la mia attenzione: era lei, rimasta nella zona per essere sicura di farsi trovare. Ormai ero comunque fregato, perché sapeva dove venire a cercarmi.

    Pochi minuti dopo ero a Wilton con Yvonne e una sua amica, una certa Mave, gran bella fica. Se solo l’avessi vista prima… Stavamo andando dal loro gruppo.

    Vicino allo spazio verde dell’ospedale di quartiere c’era una scuola materna abbandonata, un tempo ci insegnavano gaelico vecchio stile. I loro amici si ritrovavano in quel cortile pieno di immondizia, alcuni simpatici, altri un po’ meno. Erano su di giri, bevevano birrette bionde e fumavano marlboro lights; cuffietta rap, vestiti larghi e, stranamente, niente tattoos, piercing e accessori vari. Visi non troppo sporchi, insomma.

    Ridevano perché la pupa aveva catturato l’Italiano, e c’era da divertirsi. Quegli stronzi credevano che non parlassi neanche la loro lingua. Uno di loro si avvicinò e mi diede il benvenuto. Poi mi prese la mano e la stampò sul culo di Yvonne, e la cosa mi fece ridere perché era abbastanza simpatica. Pochi secondi dopo, appena abbassò la guardia, gli diedi un bel calcio nel culo e come conseguenza l’ambiente divenne silenzioso. Nessuno più parlava a voce alta, o sghignazzava. La loro festa era finita. Feci altri due passi con la tipa, accettai le sue scuse, e andammo in un green per stare da soli.

    “Tu sei pazzo” mi urlò contro Jean. “Hai dato un calcio nel culo a un irlandese, ti rendi conto? Davanti a tutti i suoi amici!”

    “Si ma mi è andata bene!”

    “Te la faranno pagare. Conosco le bande di Wilton: sono tutti degli alcolizzati e dei ladri. Credimi, non farti più vedere in quella zona. Ci tengo al mio amico.”

    “Ma come faccio a non farmi vedere da loro se abito a Bishopstown, sono dieci minuti! E poi non c’è pericolo, dai!”

    Aveva ragione lui, invece. Quel gruppetto odiava gli italiani, perché ogni volta gli fregavano le ragazze e puntualmente qualcuno si faceva male.

    Nonostante questo, in quei pochi giorni era diventata la mia ragazza, per sua unica volontà. Insisteva e l’ho accontentata. Avrei preferito non legarmi in quel posto, perché sapevo già che non ci sarei rimasto a lungo e che il vento della nuova stagione mi avrebbe trasportato altrove tanto velocemente quanto una foglia spinta dalla brezza autunnale. Ora dovevo stare più attento quando andavo in giro, soprattutto il venerdì al Victoria, quando c’era la serata iberica. Si riunivano nella mia sala da biliardo preferita tutte le spagnole di Cork, tutte lì a esporre la mercanzia con la loro solita faccia tosta. Non potevi non notare gli sguardi languidi delle chicas, e la concentrazione ti passava tutta d’un colpo. Ci mettevamo il triplo del tempo per chiudere un partita, tra una presentazione e l’altra.

    Anche se le irlandesi non erano niente male, le spagnole avevano più risorse, ed erano anche molto più calienti: sapevano bene come attirare su di sé l’attenzione di un maschio latino.

    Un venerdì sera, durante la solita partita, il gruppo degli spagnoli stava andando via per andare a ballare; bastò una furba occhiata di Jean per capirci al volo. Ci infiltrammo nel corteo e riuscimmo ad entrare gratis in discoteca.

    La musica era molto alta, e il tuo corpo diventava come una marionetta mossa dal dj.

    Pochi minuti dopo il mio ingresso, stavo già ballando con una certa Vanesa, con la quale sono andato subito d’accordo, e dopo aver mosso i piedi per circa una mezz’ora, saltò fuori dalle casse la lambada. Come un demone, le si accesero gli occhi di una luce infuocata e si mosse come solo lei sapeva fare. Penso che chiunque abbia presente o possa immaginare una bellissima ragazza latina che balla la lambada in maniera… provocante. Fu in quel momento che capii come avrei concluso la serata.

    La settimana dopo mi trasferii a Ballincollig, dall’altra parte della città.