Categoria: Epoca prima

  • Dal quaderno di Jean: Estate – II

    Lei era modo svestita
    ed i grandi alberi indiscreti
    scagliavano sui vetri le foglie
    vicini, maliziosamente vicini.

    Quel serpente si muoveva in un modo strano, arrapante. Era un serpente verde, con la lingua più biforcuta che avessi mai visto, e ondeggiava, così come ondeggiavano i fianchi su cui era tatuato.

    Io me ne stavo lì, a sorseggiare rum da quattro soldi, mentre quel serpente ondeggiava, mi incantava.

    Lei si era tolta il reggiseno, diedi uno sguardo fugace al suo petto non abbondante, ma che comunque qualcosa poteva offrire, poi passai subito alle mutandine di pizzo rosa. Si avvicinò alla poltrona e si mise sopra di me, con quel nastrino di pizzo ancora attorno ai fianchi. Mi prese le sigarette

    dal taschino della giacca, poi prese un fiammifero e lo accese, sfregandolo sul suo tacco a spillo, con un movimento secco e sensuale; accese la sigaretta e la tenne in bocca. Poi lentamente mi sciolse il nodo della cravatta, mi sbottonò la camicia, aspirò dalla sigaretta, me la mise sulle labbra, e inchinandosi verso di me buttò il fumo sul mio petto sudato.

    Volevo guardare il serpente, quel serpente verde, che dondolava sui suoi fianchi.

    Svuotai il bicchiere e lo poggiai per terra, poi la presi per i fianchi e iniziai a sfilarle le mutandine, pianoŠ con calmaŠ La carne spuntava fuori lentamente, come il sole all’alba, e quando quel nastrino di pizzo toccò terra, sentii una mano che mi slacciava la cintura, mentre l’altra mi toglieva di nuovo la sigaretta dalle labbra. Fece un lungo tiro, poi la buttò sulla moquette, mi passò un braccio attorno al collo e mi si avvicinò portando le sue labbra vicine alle mie, così dannatamente vicine che mi sfiorarono soltanto, passandomi il fumo dalla sua bocca alla mia.

    Non c’era niente di simile a Peadas, non c’erano ragazze che dondolavano sinuose come foglie, che avevano serpenti tatuati sui fianchi. Al massimo avevano qualche piercing nell’ombelico, o sulla lingua, che ormai ce l’hanno tutte, o una farfallina sulla spalla. Ma nessuna ha un serpente verde tatuato sui fianchi, che danza e che ti guarda, ti ipnotizza.

    Mi ritrovai in sella a cavalcare il serpente. Danzava e dondolava, guardandomi. Lui ondeggiava e io andavo in paradiso. Mandrie di cavalli mi percorrevano la schiena, come carovane nel deserto. Brividi caldi mi attraversavano, palme scosse dal vento, torrenti schiumosi mi facevano naufragare, fiori notturni sbocciavano in prati verdi, gli oboi suonavano,

    sentivo profumi che possedevano il respiro delle cose infinite: come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso, e cantavano i moti dell’anima e dei sensi.

    Un mare di lava mi trasportava, e il serpente danzava, ondeggiando sempre più veloce, sempre di più. Suoni cristallini sbattevano sui vetri in plexiglas, e ritornavano indietro; prima leggeri mugolii, poi gemiti dolci, poi di più, poi urla di piacere, ed eccomi lì, eccomi in paradiso…

    Lei era molto svestita
    ed i grandi alberi indiscreti
    scagliavano sui vetri le foglie
    vicini, maliziosamente vicini.

  • Dal quaderno di Jean: Estate – I

    Le Danzatrici

    Danzate, o mie dame patetiche e inette,
    nella densa fanghiglia della vostra vacuità.
    Sozze e noiose, non mi fate che pietà
    movendovi alacri come vecchie marionette.

    Dimenatevi, o mie dame odiose e procaci;
    infettate le mie salive
    di baci putridi e melmosi. O! Dive
    dalla pelle squamosa e dai gemiti fallaci,

    sfogate gli affanni e le angosce profonde.
    Spezzatevi le ossa, danzatrici da niente,
    e sbattete con forza le laidezze rotonde.

    Danzate e dimenatevi, orsù! Siete contente?
    Stelle fallite e prive di valore,
    ho ancora sulla pelle il vostro rancido fetore.

  • Dal quaderno di Jean: Primavera – III

    Fantasie

    Quando arriverà il grande sonno
    lascerò la città di marmo,
    e tesserò le mie lodi
    al Demone che tutti conoscete.

    E quando il cielo silente crollerà
    vagherò nelle vene dell’inferno,
    cercando
    un’amica da amare

    La notte non avrò freddo
    perché non sarò solo:
    dipingerò il tuo volto nella solitudine
    per confortare la mia anima.

  • All’Amore

    Non piangere Amore,
    hai già versato sangue,
    troppa speme deprecata
    ha visto il tenero cuore;

    Non soffrire più il mondo
    pesante, vile, velenoso,
    smettila di chiamare
    quel padre che non c’è.

    Accetta infine ciò
    che non avrai, vita
    sublime orgoglio rimane,
    sguardo vitreo negato.

  • Dal quaderno di Jean: Primavera – II

    Sono di un blu pallido e profondo, gli occhi di Lucia. Sono occhi che parlano, occhi che ti avvolgono e che ti disarmano. Sono occhi che raccontano, occhi che hanno visto tanto, troppo forse, in così poco tempo. Occhi che hanno passato tante notti insonni a chiedersi un perché, a covare rabbia contro tutto e contro tutti. Sono occhi che hanno pianto lacrime amare per un padre inesistente, e per una madre forse troppo giovane per poter amare quegli occhi…

    Protetta nel suo cappottino arancione, Lucia siede accanto al finestrino dello stesso autobus che ogni giorno da Sassari la riporta a Peadas. Nei suoi occhi fragili c’è un passato fatto di pianti notturni, soffocati sotto un cuscino, per una famiglia che l’ha costretta a vivere in una gabbia di cristallo, come un diamante in un museo.

    I genitori, testimoni di Geova, la tengono rinchiusa fra casa e scuola, mai uscire un sabato, quasi mai andare ad una festa di compleanno, o in giro con le amiche, o al cinema con un ragazzo.

    Lucia non ha mai baciato, mai dato un bacio d’amore, di quell’amore quindicenne e folle come i sogni di una vita diversa, lontana dalle cene d’affari del padre, dalle borse di studio e dalle medie del nove. Avrebbe voluto tanto una vita da passare a rincorrersi sotto la pioggia di notte o a dormire sui prati e a sorridere, felicemente sorridere…

    Quando era piccola, Lucia entrava di nascosto nella camera della madre e dall’armadio prendeva i suoi vestiti da sera, le sue scarpe, le collane, gli anelli e i bracciali, poi si metteva davanti allo specchio e faceva finta di essere stata invitata ad un ballo da un principe giovane e bello, così stringeva al petto il suo pupazzo preferito e muoveva passi di danza, con i suoi occhi allegri e spensierati. Ma quella fantasia doveva durare poco, e infatti subito dopo aveva già messo tutto in ordine, altrimenti la mamma si sarebbe arrabbiata vedendola giocare con le sue cose private, con i suoi vestiti e i suoi gioielli, senza rendersi conto che le gemme più preziose erano gli occhi felici di una bambina che sognava di diventare grande, e di poter trovare la felicità in un amore mai ricevuto.

    E pensare che, belli come sono, quegli occhi potrebbero essere le Muse ispiratrici per chissà quanti Omeri.

    Lucia adesso siede distratta in una panchina della stazione che è piena di gente, che pullula di suoni, di grida e di emozioni di tutti quei corpi che le girano attorno, che salgono e scendono dai pullman, di quella gente che va e viene.

    Chissà a cosa pensa Lucia, che cosa vede adesso. Chissà che viaggi straordinari sta facendo con la testa, in quell’universo tutto suo, chissà se sta partecipando ad una cena a lume di candela, con un principe bellissimo, nel ristorante più chic di Parigi, o se semplicemente sta mangiando una pizza con gli amici. Chissà quante volte fa sogni del genere Lucia, quante volte vorrebbe trasformare quei sogni in realtà…

    Ecco il solito pullman, che la riporterà a Peadas. Si ferma proprio davanti a lei.

    Gli studenti si ammucchiano davanti all’entrata e si fanno spazio a suon di spinte per arrivare per primi nel loggione, nel posto dove si siedono i duri, secondo loro. Salgono anche le casalinghe con i bustoni della spesa, e le vecchie grasse e culone che rientrano dagli ospedali. Qualcuno inizia a lanciare palline di carta, qualcun altro scarabocchia il suo nome nei sedili in plastica, altri ancora ascoltano musica con le radio portatili. Vecchie e casalinghe iniziano a spettegolare tra di loro nei posti di davanti, mentre qualche ritardatario si appresta a salire e a tirar fuori dalle tasche il biglietto. Il pullman chiude la portiera e mette in moto. Fa retromarcia e si appresta a dirigersi verso l’uscita quando dal loggione si sente la voce di una ragazzina:

    -Aspetti! C’è una ragazza che deve salire!- Apre il finestrino, si affaccia e urla:

     -Lucia! O Lucì, ajò muoviti che ti sta aspettando.

    Lucia alza la testa all’improvviso, come quando si fanno i brutti sogni di notte. Quella voce aveva interrotto i suoi pensieri. Poi si ricorda che deve prendere il pullman, che deve ritornare a casa, alla solita routine.

    Si alza a malincuore, prende lo zaino e fa per dirigersi verso il pullman, quando all’improvviso si blocca.

    -Ajo Lucì, che se no ti lascia qui l’autista- grida quella voce dal finestrino.

    Lucia resta immobile per qualche secondo, poi sospira, e finalmente sorride.

    Un sorriso fresco e pulito come il vento di primavera e chiaro come la luna in uno stagno.

    I suoi occhi adesso sono più azzurri che mai, e ridono e risplendono nel sole di maggio che illumina la stazione deserta.

    -Andate pure, io resto qui!

  • Dal quaderno di Jean: Primavera – I

    Nel mobile della sala c’era una foto che ritraeva me e Andrea esultanti negli spogliatoi del campo sportivo dell’Olympia dopo una partita vinta. Avrà avuto circa sedici anni in quella foto e indossava dei jeans sdruciti e una maglietta nera, come i suoi lunghi capelli. Aveva quel sorriso spesso irascibile e il mare in tempesta negli occhi.

    Come calciatore era davvero forte, quel giorno in particolare aveva bucato il portiere avversario per tre o quattro volte ed era oggettivamente felice. Una volta vennero al campo sportivo dei tizi di Roma che volevano portarlo a giocare là da loro, avevano già il contratto pronto: un milione al mese per i primi due anni, più studi pagati, ma il padre, lurido ubriacone, diceva che il suo mestiere non era quello di tirare calci alla palla, che suo figlio ci aveva perso anche troppo tempo a correre dietro a quella sfera di cuoio e che avrebbe fatto meglio ad andare in campagna ad aiutare il fratello più grande.

    Andrea non odiava suo padre. Sebbene lo maltrattasse e lo umiliasse davanti a tutti, non provava odio per quel vedovo sporco e alcolizzato. Avrebbe voluto ucciderlo, certo, più di una volta. Come lui aveva fatto morire la moglie.

    Ma non lo odiava.

    Me la ricorderò per sempre zia Giovanna Palmas, buonanima, bassa e mingherlina com’era, che profumava sempre di sapone di Marsiglia e che mi faceva il caffè più buono che al bar.

    Era sempre gentile con tutti, con quel suo sorriso tranquillo e roseo e quegli occhi chiari che facevano risaltare ancor di più la sua pelle bianca e lentigginosa.

    Riuscivi a capire che Andrea era suo figlio guardandolo negli occhi, solo che quelli di zia Giovanna erano molto più tristi, quasi malati.

    Era colpa del marito, Barore Piga, che aveva il vizio del gioco e che una volta aveva perso la casa in una bisca al vecchio circolo dei cacciatori. Da quel giorno gli occhi azzurri di zia Giovanna si fecero sempre più tristi per la vergogna, e il suo cuore cominciò a battere un ritmo sempre più irregolare, sino a quando non resse più, sino a quando non scoppiò. E pensare che era riuscita a far promettere al marito che non avrebbe più giocato a carte, mai più, neanche all’oratorio davanti a Don Antonio, dove non si può scommettere e si gioca solo per passare il tempo, solo per non stare a bestemmiare dentro al bar contro il governo e la pioggia e chissà cos’altro.

    E invece Barore una notte tornò a casa biascicando bestemmie a squarciagola.

    Chissà per quante ore era rimasta sveglia ad attendere il marito zia Giovanna.

    Chissà quanto aveva lavorato a maglia quella notte, e quanti balli sincopati aveva fatto il suo cuore.

    Quando sentì che urlava maledizioni per la strada, corse fuori e lo portò in casa, vergognandosi per tutto quel baccano che stava facendo.

    Il suo cuore batteva a mille all’ora mentre dalla bocca di Barore strisciavano fuori come viscidi lombrichi parole che zia Giovanna temeva di dover sentire, ma a cui non voleva pensare, confidando nella promessa del marito.

    Parole che significavano soldi persi giocando a mariglia a casa di quell’usuraio di Michele Piana.

    Molti soldi.

    Il cuore ballerino di zia Giovanna inciampò e cadde per non rialzarsi più.

    Andrea non volle andare al funerale di sua madre e non rimase neanche in casa a sentirsi dire s’iscureddu dalle zie, che non aveva bisogno della loro pietà.

    Andammo al campetto dietro alla chiesa e mai vidi il pallone schiantarsi così violentemente contro il muro dell’oratorio.

    Mi chiese se poteva dormire a casa mia quella notte, che non voleva…

    Dissi di sì, interrompendolo, che intanto già avevo capito che non voleva rimanere a casa sua a vedere il padre davanti alla bottiglia di filuferru, mentre piangeva la povera moglie.

    Alcuni mesi dopo uno zio del continente gli trovò un lavoro in fabbrica su a Cuneo e lui non ci pensò due volte e appena diciassettenne se ne andò da Peadas.

    Dodici anni dopo, per Natale, mi mandò una lettera dove diceva che là si trovava bene, che stava lavorando in una acciaieria e che si era preso il diploma da privatista e grazie a questo aveva ottenuto un posto di riguardo e non doveva fare altro che stare otto ore al giorno nel suo ufficio davanti al computer, che lo stipendio era buono e che aveva voglia di vedermi, magari per dare due calci al pallone come ai vecchi tempi.

    Nella lettera diceva anche che si doveva sposare con una donna stupenda, e che tra poche settimane sarebbe nata Giovanna, sua figlia, e che sarebbe stato contento se io l’avessi battezzata.

    Adesso che sono in questa chiesa di Cuneo con l’odore dell’incenso che mi soffoca i polmoni, penso alle corse sull’erba verde di Andrea col numero sette sulle spalle, al caffè buono che mi faceva zia Giovanna e al suo profumo di sapone di Marsiglia.

    Penso a come la vita possa tornare a sorriderti mentre guardo Andrea e Marcella che si giurano fedeltà eterna, e mentre tengo tra le braccia questa piccola creatura, che mi osserva incuriosita con i suoi grandi occhini azzurri.

  • Senza senso – II

    Inutile e stupido alquanto,
    signore e signori, è
    cercar con tanto affanno
    un certo senso nella vita,

    le direzioni cambian spesso
    e ancor di più si contrappongono,
    non badate alla filosofia
    del più oscuro tra gli oracoli,

    tappatevi le orecchie! miei figlioli,
    casalinghe, troie, gran lavoratori
    non seguite il buon profumo
    di denari, genitori, tette e culi sorridenti,
    che al buon nome sol contestano.

    Riverenti siate, o genti,
    solamente al cuor che duole
    e coraggioso, unico decide
    la sorte nostra e del futuro.

  • Dal quaderno di Jean: Inverno – III

    A volte penso che sia tutto già scritto, tutto già deciso, e che noi non possiamo farci nulla. Penso che lassù in fin dei conti non ci siano molte anime buone, ma solo una bruscia bastarda che apre le cosce e mostra la mercanzia, e ci fa credere che in questo inferno di mondo tutto sommato sia rimasto ancora un briciolo di giustizia, e che prima o poi, dopo aver passato una vita a ingoiare merda e a pregare inutilmente, prima o poi dovremo arrivarci lassù, e anche noi c uniremo agli altri in un’orgia universale e liberatrice, ottenendo la meritata ricompensa dopo una vita passata ad invecchiare senza senso.

    E invece la bruscia si diverte, ci prende in giro e ride, e quando meno ce lo aspettiamo allunga la sua lingua e ad uno ad uno ci prende e ci rinchiude in una cassa di mogano.

    Si dice che Dio si circonda sempre dei migliori, che è lui a prendersi i cuori nobili e a lasciare, in questo ammasso schifoso di terra e mare, in questa palla che gira e gira e gira all’infinito, sempre nello stesso verso, proprio qui lui lascia i non meritevoli della sua gloria, in questo inferno a continuare a vivere da peccatori, a patire e soffrire e bestemmiare e sputare in questo schifo di mondo, ma continuando a vivere, che nessuno vuole morire, nessuno è così ansioso di andare a trovare Dio.

    Che poi da lassù non è tornato mai nessuno a dirmi che sta bene, che un po’ gli manco, ma che tutto sommato sta in un posto tranquillo, con la birra bella fresca e le cameriere gentili e carine.

    Ecco quello che rimane.

    Solo una lastra di marmo grigia e lucida con molti fiori e una foto sorridente, bagnata dalla lacrime di chi ancora vive all’inferno, in questo inferno, e che piange e si dispera, si fa divorare dalla desolazione e dalla rabbia.

    Quando quel mostro nero faceva nitrire tutti i suoi cavalli e affrontava le curve senza scalare di marcia, e si riempiva di grida di paura, di preghiere, di incubi, chissà che cos’ha pensato in quel momento, quando ha visto la macchina fuori controllo che andava dritta verso la morte, chissà se ha avuto il tempo di pensare a quello che stava succedendo, chissà se si è reso conto, o se davanti ai suoi occhi aveva solo il buio e il freddo di quella notte.

    Forse non avrebbe dovuto sedersi in quella macchina, o avrebbe dovuto allacciarsi almeno la cintura, forse quello che stava al volante doveva rallentare, o non bere così tanto, forse non sarebbe dovuto andare a Saccargia, a quella festa, e fare così tardi, si… forse…

    Ora che dalla finestra guardo il vuoto, lo stesso vuoto che ho dentro, che non mi da il coraggio di andare avanti, di affrontare lo stesso inferno di sempre a testa alta; ora che non ho neanche la forza di piangere, che non ho più niente, che vorrei sciogliermi come fango e sprofondare in un abisso scuro e buio; ora, proprio ora che ne ho così tanto bisogno, ora che ho bisogno di lui, dov’è Dio?

    Ci guarda ancora da lassù, ci fa girare tutti cose se fossimo delle trottole pazze nelle sue mani, ci prende in giro, ci fa soffrire.

    Sta meglio lì, a passare il tempo ridendo di noi, che tanto qui ci viene solo per farci piangere…

  • Dal quaderno di Jean: Inverno – II

    Non è facile quando hai una pistola puntata alla bocca.

    Non è per niente facile.

    Sei dentro la tua macchina che vai al bar, come ogni sabato, e lo stereo appena comprato ti manda a palla l’hammond di Green Onions, quando incroci la macchina di Tore Corrias.

    Esce subito e ti dice che sei morto. E’ incazzato per il fatto che hai messo incinta Fabiana, la sorella, che è sposata con uno stronzo magnacaula di Sassari. A Peadas lo sanno tutti tranne che i familiari di Fabiana. Ma pare che la voce sia arrivata anche a Tore.

    Esci dalla tua macchina e gli dici che lui non c’entra un cazzo, che è una cosa che riguarda te e sua sorella, ma non fai neanche in tempo a finire che ti ritrovi contro un muro con una pistola puntata dritta alla tua bocca.

    Non sai se cagarti dalla paura o se reagire, vorresti fare di tutto ma sei paralizzato.

    I coglioni diventano piccoli piccoli, e duri come il ferro. Ti pesano in un modo assurdo.

    Il cuore ti sale in gola e provi a mandarlo giù, deglutendo la saliva che ti cola dalla bocca.

    Dallo stomaco, come vomito, risalgono preghiere che avevi dimenticato da un pezzo.

    Il cervello pensa cento milioni di cose contemporaneamente, ma il corpo non esiste più, non lo manovri, non ce l’hai.

    Ad un certo punto non riesci a vedere nient’altro all’infuori di quella canna lucida e scura puntata contro di te.

    Pensi che la tua fine può passare da un momento all’altro attraverso quella canna e venire a spappolarti il cranio.

    Il bastardo che tiene la pistola ha un alito che puzza di cinghiale morto.

    Ti parla e si agita, sbattendoti quel cannone sui denti.

    Non sai come uscire da questo casino, perché non puoi uscirne.

    -Anche se mi spari, là dentro il bar la gente sentirà il colpo. Come farai?

    -Non sono problemi tuoi – ti risponde.

    E’ fottutamente stronzo questo qui, buccirussu.

    Però gli hai messo paura. Ti dice di salire in macchina.

    Ma questo stronzo è più nervoso di te: gli cadono le chiavi della sua Lancia.

    Ti punta contro l’arma e si inchina per prenderle.

    Lo stereo si blocca, poi riparte con lo stesso hammond: ti ricordi di aver azionato il repeat.

    Tore tasta per terra con la mano cercando le chiavi, ma non le trova e così si volta per mezzo secondo, tenendo sempre la pistola puntata verso di te.

    Gli sferri un calcio alla mano, e la pistola va a sbattersi contro la sua macchina, lasciando partire un colpo.

    Dai un altro calcio a Tore, stavolta nello stomaco, ma lui ti prende la gamba fra le mani e ti butta a terra. Va a prendere la pistola ma riesci a bloccarlo con uno sgambetto. Gli salti sopra e gli sferri due pugni. Ma quel bastardo è più grosso di te e riesce a girarsi. Ora è lui sopra di te. Ti tira un pugno, un altro, poi un altro e un altro ancora. Il sangue ti cola dal sopracciglio sinistro, mentre quello stronzo continua a tirare pugni. Riesce a prendere la pistola e te la punta contro. Gli tieni le mani, cerchi di resistere. Senti in lontananza le sirene dei carabinieri, qualcuno deve averli avvisati.

    Stai per togliergli la pistola dalle mani, quando all’improvviso parte un colpo…

    Sei circondato da tante sirene, qualcuno sta chiamando un’ambulanza, Tore ha le manette strette ai polsi e lo portano via. In tanti urlano, alcuni piangono, molti restano in casa a guardare da dietro le tende delle loro finestre.

    I tuoi amici accorsi dal bar ti si stringono attorno, due vanno ad avvisare tuo padre. Non senti più niente, il tuo corpo non risponde. Hai freddo. Nel buio della notte i tuoi occhi riescono a vedere solo un bianco pallido.

    Green Onions riparte con il suo hammond…

  • Dal quaderno di Jean: Inverno – I

    Din don dan, din don dan; per chi suonan le campane, chi mai sarà? Si chiedono in paese.

    Il segno della croce si fan le perpetue che già sono in chiesa, come se già lo sapessero chi doveva morire, ma stavolta così non è.

    Din don dan, din don dan; il morto chi è? chi è che lo sa? Qualcuno dice che è tiu Bainzu Canu, che ormai alla sua età bisognava aspettarselo, che con la testa non c’era più ed erano molti mesi che non si spostava da quel letto.

    Ma lui non è, lui non è.

    Din don dan, din don dan; se non è lui chi mai sarà? Peppina Cabras non può essere, l’ho vista stamattina in chiesa e stava bene, dice zia Mantoi. Coro meu! Non le sarà successo qualcosa, che alla sua età a vivere da sola non si sa mai?!

    Ma non è lei! No, lei non è.

    Din don dan, din don dan; questa campana per chi suonerà? Non sarà mica Ginetto, povero diavolo, che anche lui se l’è cercata con quella roba che si prendeva; e povera la madre che si l’hat deffidu battagliare. Tutte in coro: s’iscureddu. E poi a casa a spettegolare in privato; ma non vi affannate, che non è lui.

    Din don dan, din don dan; ajò, chi è che lo sa? Penso che sia la mamma di Cristina Loriga, sa e sa buttega, che era all’ospedale per un ictus. Non lei non è, che la sorella l’ho vista venendo in chiesa. E allora chi è, chi mai sarà?

    Din don dan, din don dan; Don Antonio quando arriverà? Lui di certo sa chi è, e il nome del morto ci dirà, così andremo a trovarlo e faremo la gara a chi piange di più.

    Din don dan, din don dan; ecco Don Antonio che il nome ci dirà! Una ragazzina di buona famiglia, s’iscuredda, cosa significa impiccata? Ma quando mai. Deus meu! Ma Don Antò, il nome non si sa? Silvia Satta?! Sa fizza de s’americanu? Capito tutto! Grazie Don Antò, sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.

    Din don dan, din don dan; il cappio ormai tolto le han, e già vestita e deposta sul letto, la madre la guarda senza piangere, perché ancora non realizza, ma su babbu inue ch’este? Mantò, il babbo dov’è? E’ li nell’angolo, lo vedi che sta piangendo. E ci sono tutti gli zii, finza su padrinu dae Tissi, dev’essere arrivato da poco. Il fratellino dov’è? L’ha vista lui per primo appesa alla corda?! Ohi, Deus Meu caru!

    Din don dan, din don dan; Silvia dorme nel suo nuovo letto, ignara di tutti quei corpi che le piangono attorno. Se n’è andata senza dire nulla, senza motivo, pensano in tanti.

    Il motivo sta dentro la sua pancia da due mesi.