Categoria: Epoca terza

  • Ogna mal di gabbu chi v’aggiu

    Ogna mal di gabbu chi v’aggiu
    chi pari unu crastu supra la frunti,
    la menti mia gira e mi scagghiu,
    lu cori mi batte cun tutti li punti.

    Troppu cosi, troppu da fà,
    ma nonn’aggiu gana, e chissu è già.
    Sò istraccu, trabagliaddu assà,
    comu unu chi mai s’ha firmà.

    La casa, lu trabagliu, li guai,
    mi stennini comu panni ai stai.
    Ma lu chi vogghju, sinceramenti,
    è sentàmmi pianu tra li parenti.

    Cu un biccheri bonu di binu,
    e l’abbrazzu caldu d’un amigghinu,
    scurdàmmi di tuttu, senza pena,
    finza a quandu si cala la scena.

  • Lettera a Jean – 1 maggio 2025

    Sassari, 1 maggio 2025

    Ciao Già,

    ti scrivo questa lettera dopo più di vent’anni dall’ultima volta. Quando ancora aveva senso farlo, e avevo un indirizzo certo a cui mandarla. Adesso queste parole sono un po’ come un messaggio in bottiglia, lanciato nel mare: forse verrà ritrovato, forse no – magari in un futuro lontano. Ma sento il bisogno di parlarti.

    È un’esigenza che mi porto dentro da così tanto tempo che non so più nemmeno da quanto. Saranno almeno dieci anni, forse di più. Conosco ancora il tuo numero di telefono a memoria, e potrei chiamarti. Magari mi dedicheresti anche un’ora intera del tuo tempo. Potrei anche scriverti su Facebook. Ma so già che non servirebbe. Ci ho provato, più volte, negli anni.

    Forse, allora, sto scrivendo questa lettera più per me che per te. Ma spero davvero che un giorno ti arrivi. Non ho mai smesso di volerti bene, anche dopo tutto questo tempo, e credo che il tempo non possa cambiare ciò che è autentico. Perché quello che sento non dipende da ciò che ricevo da te, né da quello che posso darti io.

    In fondo, non è proprio questo il senso dell’amicizia? Continuare ad apprezzare qualcuno nonostante le distanze, le differenze, e anche in assenza di “scambi”?

    Sai bene a chi sto pensando: nel De Amicitia, Cicerone – sì, proprio lui, il nostro “simpatico amico” su cui tanto scherzavamo al liceo (e come non ridere pensando alle sue abitudini conviviali!) – parla dell’amicizia come di uno dei beni più preziosi della vita umana, fondata sulla virtù e sulla comunanza di valori. È vero, magari su alcuni valori oggi siamo lontani, ma sono sicuro che ce ne sono molti altri che ancora ci uniscono.

    Secondo lui, la vera amicizia nasce tra persone rette, legate dal rispetto e dalla lealtà. Mi piace pensare che tutto questo tra noi ci sia stato – o almeno, da parte mia c’è sempre stato un profondo rispetto per quello che mi hai insegnato, e una grande stima. Molto più di quanto io sia mai riuscito a farti capire.

    Cicerone dice anche che l’amicizia non serve per ottenere vantaggi, ma ha un valore in sé: un legame disinteressato, che si nutre di fiducia, sincerità e affetto. E anche se l’amicizia vera richiede presenza, io sento che quello che provo resiste al tempo e alla distanza. Perché si fonda su una comunanza morale che il tempo non può scalfire.

    Ok, lo prometto: basta con Cicerone. Ma ci tenevo davvero a dirtelo, e spero che, mentre leggi, ti sia scappata almeno una risata – come sta succedendo a me scrivendo tutto questo. Cicero luxuriosus et pravitate infectus!

    Ecco, con questa digressione ciceroniana ho perso un po’ il filo di quello che volevo dire, quindi penso che continuerò un altro giorno. Anzi, farò proprio così: ti scriverò “a puntate” e vediamo cosa ne viene fuori.

  • La festha manna

    Sutta a li stiddi, lu fogu si desta,
    comente cantu chi vene da l’arma,
    e in mezzu a l’umbra, tra pizzi e conzédda,
    s’assenta la zente com’una litàrma.

    Su batti di ghitarra, s’apri la sera,
    cun cori chi bolit, cun occhi brillendi,
    e ogni parola chi scappa sincera
    si mesca a lu ventu e va tra li rendi.

    L’odori di porcu, di vinu, di mari,
    s’unìscini a noti di melinzanetta,
    e in la cassola balla lu sucu chi cari,
    mentri la fammi l’anima s’arretta.

    La festha manna est comu prighera,
    unu ritusu di focu e d’armonia,
    chi porta la zente in stessa bandera
    e cun l’amori si fa poesia.

    Cala lu soli, e s’asculta lu cantu
    chi lentu si spanni tra l’olmi e li muri;
    s’est abbattutu lu pani santu,
    ma lu cori bruschiat resta sicuru.

  • In lontananza, il mare

    non c’è nessuno

    cammino per le strade
    affamato

    con la bocca secca
    e gli occhi asciutti

    .

    nuvole grigie in cielo

    le porte delle case
    diroccate – sfondate

    finestre rotte, spaccate
    balconi crollati

    .

    strade di città

    un tempo abitate
    da voci e volti

    piazze di festa
    concerti, banchetti

    .

    in lontananza, il mare

    gabbiani veleggiano
    puntini sull’orizzonte

    un veliero scorge terra
    arriva da terre lontane

    .

    c’è ancora vita

  • Partenza – II

    Aspettavo la tua visita,
    nella quiete che sa di addio.
    Ora bussi! Cento volte,
    e cento ancora.

    Ma io ho preso il sentiero,
    tra le valli profonde,
    i monti in silenzio,
    e i boschi che non chiedono nulla.

    Cercavo un luogo remoto
    per costruire la mia nuova casa.
    Lontano da te,
    lontano da me.

  • Partenza – I

    Aspettavo la tua visita
    nella solitudine. Ora
    bussi… cento volte,
    e cento ancora.

    Ma io son già partito,
    per valli e per monti,
    tra i boschi cercavo
    un luogo per costruire
    la mia nuova casa.

  • Alla rosa chiusa in teca

    Oh rosa, ch’in cristallo sì rinserra,
    più che nel giardin d’aprile accesa,
    serbi l’onor, la forma e la bellezza,
    ma l’alma tua langue in mesta guerra.

    Nessun verme ti morde, né tempesta
    ti piega il collo o ti scolora il manto,
    ma solitaria vivi entro l’incanto
    d’un vetro freddo, che non ti detesta

    ma non t’ama. Oh fiore tanto puro,
    che l’altrui dita mai non ti sfioraro,
    che mai sentisti il riso o lo sguardo
    d’un core umano sincero e maturo.

    Né mano ti potrà mai più recare
    l’acqua che nutre, né la brama accesa
    d’un amante potrà con dolce resa
    coglier il tuo profumo e sospirare.

    Tu sei perfetta, ma per chi? Per quale
    spirto invisibile o Dio severo
    che teme il tocco, e adora il mistero
    d’un fiore intatto, ma senza il suo male?

    Così l’amor, se troppo si protegge,
    non vive: s’asciuga nel suo specchio,
    e in luogo d’un giardino, ha un sepolcro
    che par tempio, ma al cor nulla corregge.

  • Che mi fai

    Che mi fai

    che non sento più i profumi
    se non quello della tua pelle

    che quando osservo l’orizzonte
    scorgo il tuo viso nel cielo

    che più nulla mi importa
    se non il qui e adesso

    e sento pace dentro me,
    la mia piccola barca
    ha trovato un porto felice

    dove il riposo ha riparo,
    dove sincere mani amiche,
    ricuciono la logora vela

  • E pur io son sì altamente innamorato: risposta a Cecco Angiolieri

    Cecco, compare mio, spirto arguto e chiaro,
    sediamci qui, ché l’alma arde e consuma;
    anch’io per donna vivo a mal a mano,
    e il cor si strugge come legna in bruma.

    Ella mi guarda, e par che poco cale,
    e ride quando il cor mi cade in terra,
    poi mi ragiona dolce, e mi fa male,
    e pur io son sì altamente innamorato.

    Di me s’è fatta gioco e fantasia,
    e pur la cerco come pane e vino;
    ché senza lei, la notte pare via
    che mena al nulla e al fin mi fa tapino.

    Io, come te, bestemmio e poi ripenso
    che forse Dio d’amor si fa trastullo,
    ma il cor, ribaldo, torna al primo senso
    e dice: “Soffri, ché morir non è nulla.”

    Mi dici: “Va’, ch’ella ti sia propizia!”
    e io rispondo: “Sia quel che vorrà sorte;
    ma s’ella ride, l’alma mia s’imbizzia,
    e se non l’ho, già sento dentro morte.”

    Dunque giochiam, ché amor è bisca oscura,
    e il senno è banco che mai paga il conto;
    che vale il lume, se ogni carta è fura,
    e un bacio è premio d’un mazzo già pronto?

  • Del mio usiél ch’è foco senza posa

    Sempre ‘l mio usiél, ch’è foco senza posa,
    s’alzava in vol per ogni giovinetta,
    anco se brutta, zoppa, o poveretta,
    ché mai guardava volto né bellezza.

    Né bruttinella mai scampò la cosa,
    ché la sua voglia è forza maledetta,
    che l’ànima mi strugge e mi disseta,
    come fornace accesa e furïosa.

    Punìa le verginelle con gran zelo,
    che quasi mi pigliava un gran spavento,
    vedendo ogn’or ch’alcuna mi guardava.

    Ché poi la sorte, come un colpo a pelo,
    e lor beltà servia sol per la brama,
    ché amor non v’era, ma pur fame e scherno.