Le mie poesie, i miei racconti

  • Ricordami così

    Amore mio eterno
    luce della mia vita
    scintilla divina
    eccezione di Dio,

    cosa eravamo noi?

    Unica divina arte
    ancestrale sentimento
    miracolosa fusione
    perfezione letteraria

    sola infinita scienza!

    Ed ora sono morto
    sparita è la magia
    svanita la forza
    perduta è la via

    irrimediabilmente!

    Ricordami così
    come amore perfetto
    nel baratro inciampato
    dalla nebbia distratto

    di te non più degno!

    Ferito il Cuore
    lacrimosa la Coscienza
    zittito l’Universo
    singhiozzante Dio

    uccisa la Speranza.

    e sempre sarà così
    fino alla fine
    di tutto il tempo.

  • Come conobbi Jack Buxton

    Fa’ la brava, o mia Pena, e sta’ più tranquilla.
    Tu invocavi la Sera; essa scende; eccola:
    Un’atmosfera oscura avvolge la città,
    Agli uni portando pace, agli altri affanno.

    Mentre dei mortali la moltitudine vile,
    Sotto la sferza del Piacere, questo boia senza pietà,
    Va a cogliere rimorsi nella festa servile,
    Mia Pena, dammi la mano; vieni qui,

    Lontano da loro. Guarda affacciarsi i defunti Anni,
    Dai balconi del cielo, in vesti antiquate;
    Sorgere dal fondo delle acque il Rimpianto sorridente;

    Il Sole moribondo addormentarsi sotto un’arcata,
    E, come un lungo sudario trascinato verso Oriente,
    Ascolta, mia cara, ascolta la dolce Notte che cammina.

    “Erano passati anni. Sembrava un secolo. I ricordi avevano perso il sapore ed era rimasto solo il lacerante dolore. Il dolore di chi è consapevole di aver buttato nel cesso il proprio talento e di aver tirato lo sciaquone. Talento. Non c’è cosa di più brutta del talento sprecato, mi disse una volta un mio amico. Anzi, il mio più grande amico che poi è diventato un merdoso opportunista rotto in culo. Esatto, come se non ci fossimo mai voluti bene. Non era proprio talento il mio, ma si avvicinava. La mia sofferenza non ha una forma ben precisa, ha una sagoma bidimensionale nera proiettata a qualche metro di distanza su un muro invisibile. Solo io so che c’è. Nessuno potrebbe mai immaginare che ora, brutto stronzo, potrei tirar fuori tanta merda dal mio cappello. Ma è venuto il cazzo di fatidico momento, non ce la faccio più a fare finta che va tutto bene, che tutto è stato fatto nella maniera giusta e che è tutto a posto. A posto un cazzo. Ho commesso il più grande errore nella storia dopo che i nativi americani non hanno massacrato i fottutissimi colonizzatori europei. Dovevano rompergli il culo, dovevano.”

    Verso altro scotch nel mio bicchiere. Una lacrima si sta formando lenta nell’occhio destro, quello dove ci vedo bene. La faccio riassorbire dall’indifferenza verso me stesso. Ho un vuoto dentro, un vuoto universale, non sento più un cazzo di niente verso il mondo intero. La filosofia, la matematica, la fisica, la letteratura… non sento più niente. Si è spenta la piccola fiammella di vita che ero riuscito a non far morire per anni. Si è spenta all’improvviso, senza preavviso, e ha reso un inferno ciò che era un paradiso.
    E voi mi chiedete adesso chi è Jack Buxton? Dovevate chiedermelo quando ancora stavo bene, avrei detto cose molto più divertenti. Potrei parlarvi per giorni di lui, per settimane. E tutto quello che ho da dire non basterebbe né a voi né a me. Ho passato con lui tanto di quel tempo… Tempo bello, tempo brutto. Tutto quello che c’è stato ora è solo un ricordo, l’unica prova che ho, di aver vissuto quei momenti col mio amico, è dentro la mia testa. Non una foto, non un diario, niente di niente. E poi, quando ti perdi di vista, dimentichi sempre qualcosa. E’ vero, non è più come prima, ora ci vediamo una volta ogni sei mesi quando va bene, ma lui è sempre lo stesso. E’ solo un po’ più sofferente ogni volta.

    Mi ha insegnato lui a portarmi a letto le ragazze, già ai tempi dell’Irlanda lui era avanti, e l’ho capito solo dopo tanti anni. Vabbè, lasciamo stare le risse le birre e le fighe del 2000 che quella è roba vecchia.
    La prima volta che l’ho incontrato, entro in un bar e mi siedo nel mio sgabello tra due tizi. Quello di sinistra era un ciccione tatuato con i capelli rossi, anzi arancioni pel di carota. Nel braccio destro aveva una lapide con scritto “Dad RIP” e sotto un cuore. Quello di destra non lo vedevo in faccia, stava con la testa china su un bicchiere di qualche tipo di whisky, probabilmente scotch. Portava una specie di fedora nero in lana e un cappotto lungo, nero anche quello. Chiedo una Guinness al dentone che stava dietro al banco, un tizio biondino magrolino tossico con gli occhi infossati e i capelli lunghi e quello senza neanche rispondere prende e mi spilla la birra al volo. Io, insomma, non è che ne sapessi molto, ringrazio e inizio a guardare la mia pinta. Noto che non c’è schiuma. A un certo punto quello alla mia destra prende e lancia un urlo al barista, una specie di verso strano, tipo “EEEEEHHHHH!!!!!”. Io rimango come un pollo, mentre quello prende e rovescia la birra nello scolo proprio dietro il banco. Il barista lo guarda male e gli dice “Fanculo amico quella la pago io!”. “Ma fanculo così impari a spillare coglione!” replica il tizio, allora il biondino rimane zitto e ne prepara un’altra, questa volta molto lentamente. Era Jack Buxton, fu così che lo conobbi.

  • Dal diario di Jack Buxton: 16 aprile 2009

    Lo sguardo più bello che avessi mai visto. Quando guardavo quegli occhi mi si scioglieva il cuore, e una irresistibile forza si sollevava, schiacciando ogni precedente sentimento, catturando ogni mia parte. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima. Non ho mai dato conto a questo, ma devo ricredermi. Quando li fissavo, percepivo una splendida luce, sentivo il suo cuore pulsare dentro me.

    […]

    Baci tenerissimi, forse troppo. Troppo veri per esistere in questo mondo, un mondo fatto di atomi e dna… In fondo… cosa siamo se non questo? Eppure una dolce magia mi conquistava, si impossessava di tutto me guidandomi al declino della ragione. SI! Perché la ragione sapeva sin dall’inizio cosa sarebbe successo… Lei si che aveva già previsto le cose, aveva calcolato tutto, sminuendo il Significato e riportando tutto a una semplice frase fatta.

    […]

    Eppur mi vanto d’esser Stato, orgoglioso di ciò che ente più mai sarà.

  • Allumato m’ha l’amor di fiamma

    Allumato m’ha l’amor di fiamma
    che d’ora tutto m’avvolge forte,
    e non m’allenta d’abbraccio mortal
    ché pel corpo mio si nutre;

    Tristura e felicitate pugnan’
    contro, la colorita gioia del bene
    mi lumina de la vostra scintilla
    e strano sorriso mi traversa;

    Or freddura d’aigua è ‘l mio disïo
    infra ‘l foco che mi cinge, ma
    l’amor d’ardor è lo spirto vero

    ché ogne om infin v’aspira,
    e quivi bruciante siedo anch’io
    volto al cïelo ché vi bramo.

  • La moglie di Gianni

    “Che cosa faresti se tua moglie scopasse con un altro?” gli chiesi.
    “Ma io prima gli spacco la faccia a quello stronzo e poi a lei le taglio la testa e la faccio a pezzettini!” mi rispose Gianni.
    “Eddai, dico sul serio, che cosa faresti?”
    “Beh, magari mi ammazzerei pure io… non lo so… non ci voglio neanche pensare.”
    “E se fossi io l’altro uomo?”
    “Ti ammazzerei con più gusto, eh eh! Anzi, prima mi ti faccio in culo e poi ti ammazzo!”
    Certo che la moglie di Gianni era veramente una bella donna, e sicuramente qualcuno prima o poi ci avrebbe provato. Poi, si sa come va a finire… a quarant’anni la gente esce di testa, senza un motivo.
    Sono tutte balle, tutte. “Non ti tradirei mai”, “Non ti lascerò mai”, “Ti amo”…
    Lei alla fine lo aveva tradito, ovviamente, e non so con certezza con chi, ma penso che fosse un cazzo di idraulico, di quelli che quando si inchinano sotto il lavandino, gli si vedono i peli del culo tra la maglietta puzzolente e i pantaloni tutti sporchi.
    Che merda. Ma allora a che cosa serve sposarsi? Solo per costruire un rapporto economico? Per avere dei figli senza che gli altri parlino male di te? O per vantarsi con gli scapoli e le zitellone? O è solo l’unica via di uscita quando lasci incinta una tipa, magari quando ancora sei troppo giovane?

    Un giorno mi era arrivata la telefonata di Gianni:
    “Compare è successo qualcosa?” gli chiesi spaventato. Aveva una voce che non avevo mai sentito prima.
    “Non preoccuparti, è tutto sotto controllo. Quella stronza non l’ho toccata, anche se l’ho beccata con un bastardo che faceva le riparazioni a casa. Passa da me, subito.”
    Arrivai a casa sua in una manciata di minuti. Ero molto agitato, perché sapevo di cosa fosse capace il mio amico… si era sempre fatto rispettare, ma ora… temevo che il peggio fosse già successo.
    “Mio Dio, pensavo… questo li ha ammazzati, li ha fatti a pezzi e li ha messi nel congelatore.”
    Invece quando arrivai sotto casa sua non notai niente di strano. Niente polizia, vigili del fuoco, ambulanze, esercito o cose simili.
    Mi aprì la porta e mi fece entrare. Mi abbracciò piangendo, tentava di parlare ma le parole gli uscivano a sillabe e non riuscivo a capire cosa mi stesse dicendo. Continuava minuto dopo minuto a stringermi e piangermi sulla spalla, e io non sapevo che fare, allora aspettai.
    Poi mi guardò negli occhi e mi disse sorridendo: “Ma come lo sapevi che mia moglie scopava con un altro…”

  • Dal quaderno di Jean: epilogo

    Caro amico,

    scusami se la mia lettera sarà un po’ fredda e in un certo senso anche diretta ed esplicita, ma è per il semplice motivo che ho una centrifuga di idee in testa che non voglio ordinare, ma lascio che siano loro a venire fuori e mostrarti il mio pensiero.

    Nell’ultima lettera dicevi questo: ”Non so più che fare, cosa pensare. Vivere come dici tu sarebbe allettante, ma si diventa troppo consapevoli di tutto ciò che ci circonda e non sarebbe una soluzione. Un punto fisso nella vita devi pur averlo, devi avere un obiettivo, un punto a cui vuoi arrivare. Secondo me devi capire veramente quello che vuoi.”

    Ebbene, io non lo so quello che voglio, forse perché in questo mondo non c’è. Ma di sicuro so quello che non voglio, e credimi, è già un grande passo avanti. Non riesco a vivere prefissandomi un obiettivo finale da raggiungere, è un’idea che non concepisco, non abita dentro di me. Porsi degli obiettivi significa mettersi dei limiti, e la vita è fottutamente troppo corta per sprecarla inseguendo degli ideali e degli obiettivi, mettendosi delle regole.

    Nella vita non ci sono regole. Esse sorgono quando dobbiamo evitare dei problemi, o meglio degli avvenimenti che noi chiamiamo problemi, ma che in realtà sono solo conseguenze dovute al nostro agire. Potrei stare seduto qui a scriverti diecimila esempi di diverso genere su questo, ma te ne farò solo alcuni: più tendiamo a porci un obiettivo, e quindi a dettarci le regole per raggiungerlo, più ci discostiamo dalla felicità. Più vogliamo ardentemente amare una donna e farci amare da lei, più ci roviniamo, dandole troppo amore senza averne in cambio.

    Più vogliamo vincere dei soldi, più sono i soldi che dovremo scommettere, al punto che la vincita (nel caso ci sia una vincita) coprirà la metà della cifra che abbiamo puntato. Concludendo il concetto, io vivo non per diventare ricco, per andare in paradiso o per l’amore di una donna, ma semplicemente per vivere.

    Ci preoccupiamo tanto di trattare i nostri simili come tali e non come oggetti. In realtà è proprio quello che siamo: oggetti che servono alla vita per andare avanti, un altro mattone nel muro se vogliamo citare i Pink Floyd.

    La vita è un qualcosa di indescrivibile, è come un portale aperto a tutte le possibilità e a tutte le impossibilità, è… vita!

    L’unico compito che abbiamo noi uomini/oggetti è talmente semplice e banale che nessuno o pochi sinora l’hanno capito. E’ quello di usare la nostra intelligenza per capire che davanti abbiamo un’infinità di cose da vedere e da fare e da dire in un determinato periodo di tempo. Perché allora concentrarsi su una sola o su poche cose? Perché non prenderle tutte se ne abbiamo la possibilità? E l’unico modo per poter farlo e non chiedere niente dalla vita.

    Se ci concentriamo su un obiettivo specifico, e impieghiamo tutte le nostre forze per poterlo raggiungere, sacrificandone altre che consideriamo magari meno importanti, ci schieriamo palesemente dalla parte dei coglioni. Questi sono uomini/oggetti con cui abbiamo avuto a che fare di persona, magari nei banchi di scuola, o nel lavoro o chissà dove, ma anche diversi personaggi storici (Napoleone, Alessandro Magno, Mussolini, Hitler, Machiavelli, tutti quegli scrittori decadenti e dandy, tutti quelli che seguono la moda…).

    Sono persone che credono che la felicità possa essere data da un solo fattore: il potere, la fama, i soldi, e tutte queste stronzate, e concentrano tutte le loro forze e le loro passioni su quello. Sono caparbi, certo! Testardi e cocciuti, pure! Ma sono felici?

    Pensi che Napoleone sia morto felice in esilio con il ricordo nostalgico e impossibile dei suoi sogni di potere? Pensi che se anche fosse riuscito ad impadronirsi di tutto il mondo sarebbe stato contento? Il potere non da la felicità perché se vuoi potere assoluto su tutte le cose devi assoggettare gli altri e più uno ha potere meno ha amici. E questo discorso vale per tutte le cose. Chi vuole essere famoso tende a trattare gli altri come se fossero inferiori a lui, chi vuole soldi viene visto come un ladro, ecc…

    Le persone che hanno capito tutto questo sono poche: il vecchio Hank, Rimbaud, Stirner, Cecco Angiolieri, Villon, Nietzsche, De Andrè.

    Tutto quello che l’uomo vuole è la felicità, stare bene, o il benessere, come si dice adesso!

    Il mondo in cui io e tu viviamo è alla continua ricerca del benessere. Siamo avanzati! Abbiamo i soldi, le macchine con il televisore incorporato, i telefonini che fanno le foto, abbiamo tutto, meno che la felicità! E non l’avremo mai se continuiamo a cercarla nel futile.

    Certe volte mi fermo disgustato a guardarli correre frenetici verso chissà cosa, e penso che il mondo mi fa davvero schifo. In quei momenti mi sento proprio come il vecchio Hank, fermo lì a guardare quelle persone senza vedere neanche un essere umano.

    Penso che dovrei lasciare Peadas al più presto, che dovrei andare da qualche altra parte, ma ormai tutto è uguale, dappertutto trovi la stessa merda, ormai.

    L’unico desiderio che ho è proprio questo, girovagare per il mondo senza meta, vedere e conoscere le cose, raccontare i tramonti del Macchu Picchu, farmi il bagno nelle spiagge di Bhaktal, pescare squali nelle coste di Capo Verde, attraversare il Sahara seduto su un cammello assieme ad una carovana di beduini, passeggiare tra le rovine di Persepoli, vedere il sole perenne di Capo Nord, parlare con i guerriglieri del Chiapas, percorrere su una barca il Rio delle Amazzoni…

    Sarebbe bello! Dondolare nel mondo come un battello ebbro…

    Come puoi vedere, amico mio, il mondo gira così. Troppi coglioni che decidono per noi, che ci dicono cosa dobbiamo fare, troppa gente che si pone obiettivi, troppe regole, troppi doveri. Questa è la società. Io non ne faccio parte.

    Sono un uomo comune, un misero studente senza ambizione, tutto quell’alcol e quell’angoscia, che ha un abbigliamento apparentemente elegante, forse per qualcuno narcisista, ma che in realtà è solo una corazza, un modo per far capire agli altri che non c’è nulla che mi possa smuovere, che non sono come loro. C’è tanta gente che pensa che io sia qualcosa che c’è nella loro testa…

    Prima avevo paura della morte, poi ho capito che è l’unica certezza che ha l’uomo, che la vita è un’avventura fantastica e non è fatta per le mezze seghe. Quello non è vivere, e non è neanche sopravvivere. E’ credere di vivere.

    Io ho fatto la mia scelta, ora spetta a te decidere da che parte stare, caro amico mio.

  • Dal quaderno di Jean: Autunno – IV

    A Lei…

    A Lei, che vogliosa e pudica
    discorreva d’amore, con le mani
    sul mio viso più giovane. Carezze
    notturne su lenzuola disfatte.

    A Lei, venere plebea; frutto
    proibito ai mortali -Gran monito!,
    che, di castità avvinta, sedeva lontana,
    passeggera dei suoi timori.

    A Lei, immune al Cupido arciere,
    io invio i miei dubbi sbiaditi
    e notturni, ora che un nuovo sole
    è giunto calmo ad estirparli.

  • Dal quaderno di Jean: Autunno – III

    A volte sogno di fuggire da questo schifo di paese, da queste vie e da queste case che conosco a memoria. Sogno di scappare lontano da queste facce, sempre le stesse, rinchiuse dentro i bar a inghiottire problemi e cazzi loro di chissà quale tipo.

    Certe notti, prima di addormentarmi, mi chiedo come è stata la mia giornata; così mi affaccio alla finestra e con la mente viaggio verso posti lontani, esotici, sperduti.

    Qualche volta mi sale in testa di andare da Dindia, il mio principale, chiedere la liquidazione e partire per il Sudamerica. Belize, Costa Rica, Guatemala, non importa: lontano da qui.

    Lontano dalla desolazione di Peadas.

    Abbandonerei anche quel sirbone di mia moglie, che non fa altro che ingrassare davanti alla televisione a guardare le telenovelas ed è già tanto che riesce a farmi trovare qualcosa di pronto quando rientro da lavoro. Non so neanche più da quanti mesi è che non facciamo l’amore, e sinceramente non mi interessa. Non la amo. Non l’ho mai amata. Forse quando eravamo ragazzini…

    Andavamo alle scuole superiori e io ero al quarto anno del classico, lei alle magistrali.

    Ogni sera avevamo appuntamento a su zimidoriu ezzu, al vecchio cimitero dietro la chiesa, e facevamo l’amore sotto una coperta che lei portava di nascosto da casa.

    Ma a diciassette anni rimase incinta. Il padre lo venne a sapere e dopo avermi dato uno schiaffo mi disse: como ti la cojuasa! Adesso te la sposi!

    Poco tempo dopo mi trovò questo cazzo di lavoro da muratore nel cantiere di un suo cugino alla lontana.

    E me lo rinfaccia sempre, ogni volta che pranziamo a casa sua, che io devo ringraziare lui se adesso lavoro e se posso vivere decentemente.

    Perché non va a fare in culo, lui e quella sanguisuga della figlia, che sta in casa tutto il giorno a combinare un cazzo e a fine mese, in vista dello stipendio finge di interessarsi di me, così può prendersi i vestiti nuovi. Ancora non riesco a capire come può una colora, una biscia come mia moglie, partorire un angelo.

    Se lavoro come un mulo dalla mattina alla sera, se sopporto questa donna che detesto, con cui non ho niente da condividere, e se soprattutto ingoio tutta la merda che quotidianamente mi lancia addosso suo padre, se rinuncio al mio desiderio di mollare tutto e di andarmene da Peadas, è per mio figlio: l’unica goccia felice della mia vita, che ormai naviga in un mare di rimpianti.

    Adesso ha sedici anni. Davide si chiama.

    Quando avevo la sua età sognavo di essere un cazzo di poeta girovago, tipo Rimbaud, e vivere la mia vita senza senso, perché non c’è un senso da trovare.

    Ricercare un senso nella vita è come sperare di farsi amare da una puttana.

    Chi siamo? Da dove veniamo? Sono domande inutili.

    E’ quello che ci rende felici che bisogna capire. E per farlo non c’è bisogno dei preti che ci dicono di pregare il buon Dio, tantomeno di qualche filosofo del cazzo.

    Io non lo so cosa mi porterà ancora questa vita, che sorprese mi riserverà per il futuro. So solo che i miei sogni ormai vivono in un posto molto lontano da qui e qualche notte vengono a farmi visita, e mi raccontano avventure stupende che mi provocano sensazioni meravigliose.

    Un solo sogno è rimasto con me: mio figlio. Lo vedo crescere ogni giorno di più, cosciente purtroppo del fatto che presto anche lui se ne andrà via da me, che anche lui prima o poi dovrà crescere…

    Ma tutto sommato va bene così.

  • Dal quaderno di Jean: Autunno – II

    Adesso che non ho più l’atletismo e i riflessi di un tempo, di quando mi spostavo agile come una zanzara da una parte all’altra del ring, schivando destri e sinistri per poi dare il colpo del K.O. e per alzare le braccia al cielo, ubriacandomi di gioia, con le grida assordanti di quei quattro diavoli dei miei fedali, che ripetevano ad alta voce Frank! Frank! Frank! dal fondo della palestra, e con il volto soddisfatto di tiu Barore, che se sapevo qualche dritta di boxe era solo grazie a lui; che anche le volte che perdevo ai punti era come se avessi vinto, piccolo e mingherlino com’ero; adesso, rimango a guardare quei guantoni appesi in camera, vicino alla foto del mio primo incontro da professionista, e trattengo le lacrime.

    In paese mi conoscono tutti, Frank il pugile, e quando passo al bar da Tonio a prendermi il caffè la mattina, c’è sempre qualcuno che mi offre qualcosa.

    Il lavoro che faccio non è bellissimo, non è il massimo a cui uno può aspirare, prendere una scopa in mano e pulire le strade dalla merda dei cani, ma a me non importa: è pur sempre un lavoro, non sto mica rubando!

    Ogni tanto qualche ragazzino al bar, tra un tempo e l’altro delle partite della Juve, mi chiede di raccontare qualcosa dei miei incontri, dei miei momenti di gloria, e si gasa sentendomi parlare di ganci e montanti e diretti e guardie.

    Tiu Barore me lo diceva sempre, che il segreto di tutto è la guardia. Bisogna stare sempre in guardia, sopportare, soffrire e schivare, aspettare il momento opportuno per stendere l’avversario quando abbassa la guardia.

    E questo non solo nella boxe…

    Mi manca molto tiu Barore. E’ già un anno e mezzo che non c’è più, che il cancro l’ha inghiottito, e ogni tanto vado al cimitero e gli porto qualche fiore.

    Mi ricordo sempre il primo giorno che entrai in palestra, quando mi avvicinai da lui e gli dissi che volevo iscrivermi alla scuola di pugilato.

    Lui si girò, mi guardò e sorrise.

    Avevo quattordici anni e il fisico di un bambino di otto, la faccia mangiata dall’acne, i cappelli tirati all’insù e gli occhi che fremevano.

    Nessuno avrebbe scommesso su di me un soldo bucato, ma lui mi disse che se volevo fare pugilato, mi avrebbe aiutato e mi avrebbe insegnato.

    Il primo periodo cercai di mettere su qualche chilo, perché quando restavo a petto nudo mi si vedevano le costole e non era un bello spettacolo. Così dopo qualche mese arrivai ad uno stato almeno accettabile, ma ero sempre il più magro e il più mingherlino tra i miei coetanei. Di forza nelle braccia non ne avevo, i miei pugni non facevano molto male ma davano fastidio, e quindi tiu Barore mi faceva allenare sulla resistenza.

    Più che un picchiatore ero un incassadore, come diceva qualcuno, uno che ci metteva il cuore, che incassava bene i colpi e che puniva l’avversario ogni volta che questo abbassava la guardia.

    Il primo incontro lo feci a quindici anni e mezzo, nella palestra di Peadas, contro uno che aveva la mia stessa età, ma era molto più grosso di me.

    Riuscii a reggere per tutti i cinque round, poi alla fine, stanco morto, abbassai la guardia e quello ne approfittò per mollarmene uno sul naso.

    Caddi a terra, ma mi rialzai prima che l’arbitro contasse a dieci. Avevo le lacrime agli occhi, ma non volevo mollare, volevo arrivare sino alla fine, restare in piedi sino all’ultimo. Non ci fu un vincitore vero e proprio, perché non c’era nessuno a prendere i punteggi, ma io ero felice lo stesso, ero rimasto in piedi, ce l’avevo fatta.

    Arrivai a fare qualche incontro da professionista ma poi la malattia costrinse tiu Barore a stare a letto, perché le ossa non lo reggevano più.

    Mollai tutto anche io.

    Lui mi disse di continuare, di non abbassare la guardia, e io per un po’ continuai a sfogare la mia rabbia sui sacchi, ma poi non ce la facevo a tornare da lui ogni volta che facevo un incontro e vederlo lì su quel letto, con la morte che gli girava attorno.

    Lui tenne alta la guardia per sette anni. Per sette lunghi anni lottò contro il cancro che lo divorava lentamente, che gli sbriciolava le ossa.

    L’ultima volta che entrai in palestra mi si strinse il cuore. Tutti quei sacchi mangiati dai topi, il ring mezzo rotto, i muri pieni di muffa, i vetri delle finestre rotti. E tutta quella polvere…

    Ogni tanto mi sale in testa di riaprire la vecchia palestra e di rimetterla a nuovo, di rifondare la scuola di pugilato, ma poi realizzo che sarebbe soltanto un modo per sperare di non morire dentro. Ormai ho abbassato la guardia, ho ricevuto il colpo del K.O. che mi ha mandato al tappeto.

    Uno… Due… Tre…

  • Dal quaderno di Jean: Autunno – I

    Guardo dalla finestra della mia camera la neve che cade pallida e fredda sulla Moldava mentre fumo stancamente una sigaretta. Sono carico di assenzio e di questa birra schifosa che fanno qua, che ti gonfia lo stomaco e sembra olio. Mi mancano le birre lager.
    Ripenso a questi due anni trascorsi qui, tra il ristorante e i giri per i locali una volta finito il turno.

    Fischiettavo i ritornelli di Aretha Franklin mentre Jesus, l’aiutocuoco spagnolo che lavorava con me, fermava ogni bulgaro che incontravamo a Malà Strana per chiedere se aveva dell’erba buona da vendere. Ma volevano tutti fotterci, e per quanto ne capivo io di queste cose, la roba che vendevano non era di prima qualità e i prezzi erano misteriosamente troppo alti.
    Decidemmo di entrare al Karlov Lazny, la discoteca a quattro piani, per cercare qualche bruscia che ci facesse divertire.
    Jesus trovò finalmente qualcuno che poteva dargli roba buona, cocaina a buon prezzo.
    Seguì il bulgaro verso i cessi mentre io mi misi a sedere in un divanetto con Thelma, una ventiduenne inglese che era a Praga per studio, occhi verdi, capelli rossi e culo a mandolino.
    Lei cercava di capire quello che io le dicevo in un inglese casereccio, mentre sorseggiava Jagermeinster e rideva ad ogni errore grammaticale che facevo.
    Non parlava, forse perché sapeva che non l’avrei capita, e anche perché ormai avevo il cervello pieno di assenzio e inventavo discorsi in inglese a rotazione, sputando frasi senza senso, incuriosito dal fatto che lei rideva senza mandarmi a quel paese e senza tornare dalle sue amiche là in pista, senza inventare una misera scusa balorda per andare via da quell’italiano logorroico che aveva davanti, forse anche per il fatto che quell’italiano le stava offrendo da bere; così dissi do you want to make love with me? E subito ebbi uno yes come risposta.

    Passavo a prenderla all’università e poi ci facevamo un giro per piazza Venceslao a rovistare tra i mercatini e i negozietti di musica jazz, che tanto là ascoltano solo quello.
    E’ lì che scoprii quella musica magica, travolgente e sensuale, dolce e aggressiva allo stesso tempo.
    I ragazzi della mia età a Peadas ascoltavano musica da discoteca, techno, senza impegno e senza sentimento. Al massimo, qualcuno che voleva differenziarsi, aveva qualche cd dei Sex Pistols o degli Eater o dei Clash.
    Ma il sax di Charlie Parker, la tromba di Dizzy Gillespie, e poi Sidney Bechet, Glenn Miller, le voci di Bessie Smith e di Billie Holiday erano la colonna sonora delle mie notti praghesi con Thelma. Erano note che ti facevano volare sino alla Torre delle Polveri, ti facevano danzare nella Piazza Vecchia notturna e deserta, ti facevano compagnia nel guardingo Quartiere Ebraico, ti accompagnavano alla ricerca di birrette solitarie nei locali più sperduti.

    Lei sembrava rimasta ancora agli anni sessanta, con quei vestiti optical e l’acconciatura alla Cleopatra, con la frangetta marcata e la minigonna, sempre senza rossetto ma con gli occhi ben truccati.
    Mi insegnò un po’ di inglese e voleva imparare qualche cosa di sardo, ma la pronuncia non gli permetteva di parlarlo perfettamente, un po’come funzionava per me con la sua lingua.
    Come mi piaceva quella modette di Brighton! Passavamo serate intere nei negozi di abbigliamento, visto che lei non sopportava i miei jeans larghi e lisi e il mio giubbotto in pelle. Trovava il mio look un po’ trasandato e così decise di darmi qualche lezione di stile.
    Mi portò da un sarto e mi fece fare un abito su misura: pantaloni bianchi aderenti senza pences e con il risvolto all’altezza delle caviglie; giacca, pure questa bianca, a tre bottoni, con sotto una camicia nera, che inizialmente non volevo perché mi ricordava il Duce, e una cravatta bianca attorno al collo. Con le scarpe da bowling che avevo preso il giorno prima stavo una meraviglia.
    Mi guardai allo specchio e pensai a mia madre: sembravo vestito a nozze e già me la vedevo piangere davanti a Don Antonio, finalmente orgogliosa di quel povero figlio che si era sistemato.

    I giorni passavano e ormai quando finivo in ristorante correvo da lei in biblioteca. Facevamo un giro al centro e poi tornavamo a fare l’amore di notte nel suo appartamento, facendoci spiare dalla Moldava, che si portava via velocemente le nostre stagioni.

    Ogni tanto mi chiedeva se l’amavo. Io rispondevo con un sorriso e le accarezzavo i capelli lisci e rossi, poi con una mano le slacciavo il reggiseno e facevamo l’amore.
    Lo sapevamo tutt’e due che prima o poi l’incantesimo sarebbe finito, e che lei sarebbe tornata a Brighton ad agosto.
    E il fatto è che io non avevo niente da offrire a quella bambolina, povero diavolo com’ero. Non potevo dirle di venire a Peadas con me che mio padre lavorava in comune e non avevo tanche da coltivare. Lei studiava all’università mentre io avevo un misero diploma preso col sessantuno grazie a quel figlio di puttana di professor Marras, che quando ha scoperto che scopavo con sua figlia ha promesso di farmela pagare. Lei è uno sfaccendato perditempo, un bifolco. Così mi diceva quando andavo alla lavagna a fare le derivate. A tutti dava del tu e li chiamava addirittura per nome, tutti tranne me. Ma non ci riuscì a fottermi, che se toglievano la matematica e la fisica dalla pagella, avevo la media dell’otto, e quindi, bene o male, il culo era salvo; fanculo a lui e a quella bruscia di sua figlia.

    Qualche volta Thelma mi chiedeva di leggere quei versi stupidi che scrivevo in un quaderno ingiallito, che diceva che le piacevano. Per me erano solo stronzate a cui mi attaccavo quando stavo male e non riuscivo a capire il perché, così lasciavo i miei pensieri liberi di esprimersi e di sfogarsi su quei fogli di carta che poi non leggevo mai, tranne quando era Thelma a chiedermelo. Si preparava qualcosa da bere e ascoltava, poi si sdraiava accanto a me e mi faceva entrare dentro di lei, mentre la Moldava straripante e bastarda ci faceva naufragare verso l’estate.

    Quel giorno non mi disse nulla. Mi lasciò un bigliettino con su scritti dei versi che voleva che le leggessi sempre prima di fare l’amore:

    …la notte non avrò freddo
    perché non sarò sola:
    dipingerò il tuo volto
    nella solitudine,
    per confortare la mia anima.

    Ora passeggio sul ponte Carlo, con il freddo di novembre che mi schiaffeggia il viso.
    Dalla Moldava riaffiorano ricordi che hanno il profumo di Thelma, e mentre affondo i miei scarponi nella neve pallida e soffice, penso che non riuscirò mai a dimenticarla, che mi ammazzerò dipingendo il suo volto nella solitudine, mentre naufrago in balìa della corrente e dei ricordi di questo stupido fiume.